Personaggi ed espressioni artistiche nella storia di Militello in Val di Catania (ex Vallo di Noto) – voci redatte da S. P. Garufi Tanteri

Un dipinto del pittore colombiano Pedro Alì Castellon Harba

Alfio da Messina (sec. XII), religioso. E’ il personaggio più antico della storia di Militello, poiché lo troviamo citato in un diploma di Re Ruggiero del 1130, dove un Bertrando da Noto viene nominato suo erede nell’incarico di Rettore della chiesa di Santa Maria della Stella “in oppido Militello”. (S. Gar.)

Asmetto, Leonardo (Militello, sec. XVI-Caltanissetta, 1641), religioso ed erudito. Nelle sue Notizie sull’ordine dei francescani conventuali, pubblicate a Venezia nel 1644, lo storico maltese Filippo Cagliola ci informa che fu un monaco di molto sapere e che insegnò nelle principali cattedre dell’Ordine. (S. Gar.)

Baldanza, Giovan Battista, ilGiovane(Militello, sec. XII), scultore e pittore. I dubbi sulla sua esistenza sono stati sciolti da due documenti che Giusy Larinà ha rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Catania. Il primo è un atto di pagamento del 15 novembre 1629, in cui vengono menzionati due maestri Giovan Battista Baldanza, padre e figlio (quest’ultimo chierico). V’è, inoltre, il testamento “in articulo mortis” di Baldanza sr., datato 28 novembre 1631, nel quale Baldanza jr. viene nominato erede universale. Oltre alla committenza evasa insieme al padre, gli possiamo attribuire un San Paolo del 1644 e una bara di San Giovanni Battista del 1651, oltre a diversi lavori pittorici: il Sant’Isidoro (1630) e la Madonna dell’Itria (1631) per la chiesa di San Francesco di Paola, un San Biagio per la chiesa di Sant’Antonio di Padova, una Sant’Agata per la sacrestia del monastero omonimo e l’enorme quadro dell’Altare Maggiore della chiesa di San Benedetto (1646), dove il Santo, in mezzo ai suoi seguaci e ad alcuni personaggi armati di spada, indicava il libro della sua Regola tenuto da un monaco in ginocchio. Purtroppo una colpevole indifferenza nei confronti del patrimonio artistico ha provocato in anni recenti l’irrimediabile perdita dell’opera. (S. Gar.)

Baldanza, Giovan Battista, il Vecchio(Militello, sec XVI-XVII), scultore e pittore. Fu forse parente del letterato Paolo Baldanza (meglio noto come abate De Angelis). Nel 1601 scolpì una statua di San Leonardo per l’omonima chiesa; 1621 scolpì la statua di San Nicolò di Bari, titolare della Chiesa Madre di Militello; nel 1631, sempre per la chiesa di San Nicolò, scolpì dodici statuette rappresentanti gli Apostoli. Fu, inoltre, autore della bara di Santa Maria della Stella (1624) e delle porte del tabernacolo di Santa Maria della Stella. Gli esemplari sopravvissuti della sua produzione si fanno ammirare per certa elegante morbidezza di forme, pur in una distribuzione di volumi che trasmette l’idea di una ferma dignità (S. Gar.).

Baldanza, Paolo, detto Abate de Angelis (Miltello, 1566-Roma, 1647), religioso ed erudito. Nacque da Guglielmo e da Beatrice Baldanza e fu battezzato nella Chiesa Madre di S. Nicolò. Fin da giovane si trasferì a Roma, dove fu ammesso al seminario dei Chierici e studiò presso i gesuiti, divenendo dottore in filosofia, teologia e diritto canonico. Curò, quindi, l’istruzione del futuro cardinale Silvestro Aldobrandini e fu canonico in S. Maria Maggiore. Divenne, poi, commensale di Papa Paolo V e Cappellano Apostolico. Nel 1625 Urbano VIII lo fece abate di S. Maria in Castania. Nella sua permanenza a Roma Baldanza rese preziosi servizi al principe Francesco Branciforti, procurandogli ogni sorta di novità libraria. Fu autore delle eguenti opere: Della limosina, ovvero opere che ci assicurano nel giorno del final giudizio, Libri X, Roma, 1611; Basilicae S. Mariae Majoris de Urbe a Liberio Papa I usque ad Paulum V. Descriptionem et deliniationem, Roma, 1621; Brieve compedio delle cose che si trattano nella Sacra Historia de’ titoli dell’Emin. Collegio Apostolico, Roma 1640; Basilicae veteris vaticanae descriptionem, autore romano ejusdem Basilicae canonico cum notis abbatis Pauli de Angelis, quibus accessit descriptio brevis novi templi Vaticani, nec non utriusque ichonographia, Roma, 1646. (S. Gar.)

Barbera, Antonio (Militello, sec. XVI), giurista. I contemporanei ne celebrarono la ricca erudizione con cui arricchì la sua profonda conoscenza giuridica. Ricoprì con onore cariche prestigiose e conseguì la toga perpetua di Mastro Razionale del Tribunale del Real Patrimonio. Con molta probabilità, la sua famiglia era una delle più cospicue di Militello. Sappiamo, infatti, di un Luca Barbera (quasicertamente, il padre) dottore in diritto nel 1577. E’, inoltre, da credersi che fosse suo fratello don Pietro Barbera, dottore in legge e prelato, che era parroco di S. Nicolò il 22 giugno 1585 e divenne vicario generale del vescovo don Giovanni Osorio nell’intera diocesi di Siracusa (alla quale la città, a quei tempi, apparteneva). Si può credere, infine, che fossero originari di Militello i Barbera di Palermo, tenuti in gran considerazione in quel secolo, e (ma, con indizi molto più vaghi) la famiglia di Giovan Luca Barbieri da Noto, giurista-principe della scuola antibaronale palermitana ed autore del Capibrevi. (S. Gar.)

Barone, Giuseppe (Militello, 1887-Catania, 1956), pittore. Studiò a Palermo, prima al Liceo Artistico e poi all’Accademia di Belle Arti, per cui si formò nell’ambito della pittura del Lojacono, molto rigorosa e realistica nella ricostruzione dei volumi e pervasa dallo spirito documentaristico del naturalismo. Nel 1927 si trasferì a Catania, esponendo poi in diverse mostre organizzate dal “Circolo Artistico” e da altri enti. Fu maestro nella pittura e nell’affresco, lasciando ottimi saggi d’arte in collezioni private ed in numerosi edifici religiosi, quali la Chiesa Madre di Carlentini, la cappella del Seminario Arcivescovile di Siracusa, la Chiesa Madre di Nicolosi, la Cappella Funeraria del barone Penna di Scicli, la Chiesa Madre di Misterbianco, la Chiesa dei Salesiani di San Gregorio, la Chiesa Madre di Belpasso, le chiese catanesi di San Filippo Neri, di San Biagio, di Maria SS. Bambina a Ognina e di Santa Lucia a Ognina, le chiese messinesi di Santa Maria di Gesù  e del SS. Salvatore. A Militello restano affreschi suoi in San Nicolò e in Santa Maria della Stella. (S. Gar.)

Barresi Balli, Mario (Militello, sec. XVIII), giurista. Lo storico Vincenzo Natale ci informa che, diventato dottore in legge, “si recò a Palermo e tenne la carriera del foro con felice evento”. Presto, infatti, cominciò a salire i primi gradini verso l’alta magistratura, divenendo giudice della Corte Pretoriana. Purtroppo, una morte prematura gli impedì di ricoprire gli incarichi più alti a cui sembrava destinato. (S. Gar.)

Basso, Giuseppe (Militello, sec. XVII-ivi, 1722), religioso. Vestì l’abito dei frati cappuccini, distinguendosi in particolar modo come predicatore. Arricchì il convento di Militello con molti lavori di ristrutturazione e lo dotò di una biblioteca che, fino a qualche anno fa, era uno degli orgogli della città (purtroppo, la mediocre qualità dei politici permise, intorno al 1980, che la biblioteca venisse portata fuori di Militello). Il Basso, inoltre, fu eletto Padre Provinciale per ben due volte, la prima nel 1703 e la seconda nel 1705. (S. Gar.)

Bellardita, Paolo (Militello, inizi sec. XVI-Gioiosa Marea, 1592), religioso. Dottissimo in diritto canonico e civile, per alcuni anni ebbe l’incarico di Inquisitore del Santo Offizio di Malta. Fu, però, molto presente negli affari della sua città natale. Infatti, in un atto del 15 giugno 1565 presso il notaio Vincenzo Carcò di Militello si ha notizia di un trasferimento del benefio delle chiese S. Gregorio  e di S. Agata da don Paolo Bellardita al chierico don Mariano Di Salvo, futuro parroco di S. Nicolò. Undici anni dopo, il 3 ottobre 1576, lo stesso Di Salvo fece procura a don Paolo e a don Francesco Bellardita a rappresentarlo nella contesa su una pensione di 25 scudi, che lo opponeva a don Pietro Niglio, nel frattempo successogli nel parrocato di S. Nicolò. Nel 1584 il Nostro venne eletto vescovo di Lipari da Papa Gregorio XIII. Attualmente le sue ceneri riposano a Lentini, nella chiesa di S. Domenico. (S. Gar.)

Bellardita, suor Prudenziana (Militello, sec. XVI), religiosa. Con esemplare impegno diede altissima testimonianza di vita cristiana. Pietro Carrera ne scrisse la biografia in Vita di quattro religiose di santi costumi, e fra esse di suor Prudenziana Bellardita di Militello, sorella dell’ill. don Paolo Bellardita, vescovo di Lipari, manoscrittounavoltaesistente presso la biblioteca dei Cappuccini di Militello. (S. Gar.)

Branciforti, Vincenzo (Militello,1584-ivi, 1620), religioso, poeta e musicista. Terzogenito di don Fabrizio e di donna Caterina Barresi, quindi fratello del principe don Francesco, fu battezzato in S. Nicolò dal parroco, don Pietro La Barbera, padrino il medico Leonardo d’Orlando. Divenne abate di S. Maria di Novaluce, di S. Maria della Scala e del Parco. Acquistò una buona rinomanza come musicista e come poeta. Ci resta qualche saggio della sua produzione letteraria in Infidi lumi, madrigali a 5 voci di diversi autori siciliani, Palermo, 1604. Le sue ceneri riposano a Militello, nella chiesa di S. Benedetto. (S. Gar.)

Campisi Cannameli, Giuseppe (Militello, 1754-ivi, 1833), medico e filantropo. Lo storico Vincenzo Natale rilevò  “la benignità della sua indole, la soavità del costume, la sociabilità”. Egli, infatti, fu sempre vicino ai poveri della città, prestando gratuimente la sua opera di medico e spesso sostenendoli economicamente nell’acquisto di medicine, o semplicemente del pane. I suoi primi studi furono di botanica e di chimica, discepolo del celebre cattedratico dell’Università di Catania Matteo Di Pasquale. Abbracciò poi la medicina, praticamente da autodidatta, frequentando la clinica di Luciano Rejna fino alla laurea. Degno di particolare lode fu il suo impegno nel tenersi aggiornato nella scienza medica, testimoniato da una ricca biblioteca. (S. Gar.)

Campisi, Vincenzo (Militello, sec. XVI-Catania 1624), religioso e poeta. Vestì l’abito dei francescani conventuali e fu maestro di teologia nella cattedra del convento di S. Francesco a Catania. Nel secondo libro dei suoi epigrammi Pietro Carrera lo lodò per le qualità umane e per la preparazine nelle scienze naturali e nella sacra erudizione. Fu pure un apprezzato poeta. (S. Gar.)

Carrera, Pietro (Militello, 1573-Messina, 1647), storico e poeta. Nacque il 12 luglio da Mariano Carrera e di Antonina Saverino. Le prime nozioni di logica le ebbe dal giurista Girolamo Milana, poi fece gli studi ecclesiastici nel seminario di Siracusa, città dove poi ottenne gli ordini sacri. Dal settembre 1601 al dicembre 1604 fu una prima volta cappellano nella parrocchia di Santa Maria della Stella, ritornando a ricoprire lo stesso ufficio dal luglio 1612 al gennaio 1617. Nel 1604 era maestro-notaro della corte vicariale. Fu, inoltre, cappellano di donna Giovanna d’Austria, signora di Militello, come ci confermano i libri parrocchiali, dai quali apprendiamo che, il 29 maggio 1621, Carrera battezzò quattro servi turchi di donna Giovanna ed è ulteriormente ribadita da una notazione autobiografica dello stesso Carrera, inserita nel vol. I delle Memorie di Catania, in cui leggiamo: “…nell’anno 1621, trovandomi ai servigi di don Francesco Branciforti principe di Pietraperzia e di donna Giovanna Austriaca sua moglie, fui con loro in Augusta, ove dimorammo da febbraio insino a maggio”. In questi felici anni il Carrera, oltre a godere della compagnia dei nobili ingegni ch’erano a corte, potè avere accesso alla ricchissima biblioteca del principe Branciforti (circa 10.000 volumi). Ne furono frutto alcune composizioni in lingua italiana e latina e un poemetto, Zizza, dove l’imitazione del Tasso viene nobilitata da una scrittura di particolare nitore e da una stupefacente capacità di dar varietà di personaggi alle personifazioni dei luoghi (Scordea, Meliteio, Vanella, Zizza, Lembesi, ecc.), che l’artefatto stile dell’epoca amava tanto. Risale a questo periodo pure la composizione di una raccolta di esametri latini, Pessopedia, sul gioco degli scacchi, dalla quale successivamente trasse le regole per il suo libro più noto, il trattato su Il giuoco degli scacchi. Dopo la morte di don Francesco Branciforti, avvenuta il 23 febbraio 1622, Carrera si allontanò da Militello, per recarsi prima, nel 1623, a Messina e poi, nel 1624, al seguito del duca don Giacomo Bonanni, a Canicattini (da dove si sa che per pochi giorni tornò a Militello, dopo il terremoto del del 3 e del 6 ottobre di quell’anno). Quello fu pure l’anno in cui venne pubblicata a Messina l’opera Antica Siracusa illustrata, di cui il Bonanni veniva indicato come autore, ma che successivamente il Carrera rivendicò come sua (su questa paternità contestata, infatti, tra il 1640 ed il 1643, dopo la morte del duca, egli sostenne una violenta polemica con fra’ Mariano Perrello da Scicli). Nel novembre del 1625 troviamo il Carrera impegnato nelle sue ricerche erudite a Napoli, da dove passò a Roma, per ritornare in Sicilia prima dell’inoltrarsi dell’inverno. Tornò in queste due capitali nel 1636, sempre per motivi di studio. Nel frattempo, nel 1633, lasciato il servizio presso il Bonanni, dopo una permanenza di otto mesi a Palermo, si era trsferito a Catania, dove nel 1634 aveva cominciato a scrivere Notizie di Militello nel Val di Noto, opera interessante perché nella parte rimastaci contiene diverse notizie di carattere statistico-economico, superando la mera biografia dei principi, che spesso era il modo dell’epoca d’intendere la storia. Purtroppo, il lavoro restò incompleto, perché i signori di Militello, don Federico Colonna e donna Margherita Branciforti, non dettero alcun segno di incoraggiamento o di apprezzamento. Nel 1639 uscì il primo volume delle Memorie istoriche della città di Catania, dove rivendicò l’onore di essere patria di Sant’Agata alla città di Catania (c’era in atto, al riguardo, una lite tra questa e Palermo presso la Santa Sede). Così, tra minuziosaggini e polemiche erudite il Nostro passò a Catania ancora otto anni, prima di finire all’ospedale di Messina, dove il 18 settembre 1647, a settantaquattro anni, morì. Le sue opere più importanti furono: Relatione delle chiese e figure della Beata Vergine che sono in Militello…, s.d.; Chorographia militellana, carme di 282 vv., s.d.; Vita di quattro religiose…, s.d.; Epigrammi latini, 1610; Il guoco degli scacchi, 1617; trad. de I tre libri dell’epistole di Gio. Thomaso Moncata…, 1620 e ivi le Annotationi…, 1622; Esercitio quotidiano…, 1622; Zizza, idillio pastorale…, 1623; Dell’antica Siracusa illustrata…, 1624; Il Bonanni, dialogo…, 1625; trad. dell’Argenide diGiovanniBarclajo, s.d.; Bucoliasmus sive Ravanusa, 1634; Della notitia di Militello…, incompiuta; Risposta di Valentino Vespaio…, 1635; Il Mongibello, 1636; Delle memorie istoriche della città di Catania, tomo I 1639 e tomo II 1641; Discorso… sopra l’opera Antichità di Scicli… del Perello, 1641; Della famiglia Tedeschi…, 1642; Risposta…, sempre al Perello, 1643. (S.Gar.)

Cartoline e manifesti. A Militello, per comune destino della provincia, mancarono committenti prestigiosi sia per la cartolina, che per il manifesto. Vi furono soltanto onesti, ma limitati, proprietari di una merceria, di una tabaccherie e di un negozio di macchine per cucire, che si rivolsero a stampatori forestieri, o a qualche fotografo locale, tecnicamente dignitoso, ma non sempre di gusto straordinario. Rara avis furono le cartoline d’arte. Per ciò che riguarda i manifesti opera di autori militellesi, nel ‘70 ne uscì uno commemorativo della Liberazione di Santo Marino, negli anni Ottanta ci fu una serie (di tre esemplari) sulla Settimana Santa sempre del Marino, un’altra (di due esemplari) sulla Cronoscalata Scordia-Militello di Elio Nicosia ed un pezzo singolo, molto bello, sulla Settimana di musica barocca di Salvatore Di Fazio. Negli anni Novanta, invece, uscì la serie sulla Sagra del ficodindia e della mostarda, nella quale veniva elaborata l’immagine di un dipinto di Santo Marino. La prima serie di cartoline su Militello la si deve probabilmente alla DIENA (Industrie artistiche riunite Torino). Dovrebbe comprendere più di undici esemplari numerati (da 19352 a oltre 19362). I soggetti sono quelli classici. Si presentano angoli tipici e pittoreschi (ben due panorami, il fiume Lembasi, la piazza di Santa Maria della Stella, il viale Regina Margherita, il parco delle rimembranze) e qualche opera civile di cui andare orgogliosi (l’orfanotrofio, per esempio). Ne viene fuori un’evidente povertà. In queste cartoline, Militello assomiglia a molti paesi dell’interno della Sicilia. Lo si guarda dall’esterno, rendendolo un po’ anonimo. La data è da collocarsi intorno agli Anni Dieci (in ogni caso, è posteriore al 1904/1905, dato che solamente a partire da questi anni la parte destinata all’indirizzo occupa, come nella nostra serie, la metà del rovescio). Il primo nome benemerito nella produzione militellese di cartoline è quello di Andrea Virgata, proprietario di un negozio di macchine per cucire. Il taglio delle immagini è più o meno uguale a quello della serie DIENA. Ora, il paese presenta soprattutto l’architettura (il castello, il municipio, le chiese, l’orfanotrofio). Una maggiore attenzione all’arte può leggersi in una cartolina (produzione della parrocchia) dov’è riprodotto il sarcofago di Blasco II Barresi ubicato in Santa Maria della Stella. Di essa si hanno due varianti, una in grigio ed una in marrone. Probabilmente intorno agli Anni Trenta, si ebbe la produzione di altre due immagini “artistiche”, in cui si vede la grande ceramica Natività di Andrea Della Robbia, pala d’altare in Santa Maria della Stella. Intorno agli anni ‘40/50 e nei successivi anni ‘60 furono stampate prima una cartolina con alcuni versi del poeta militellese Giosuè Sparito (Enrico Fagone) e poi più di quattro cartoline dove sono riprodotti lavori del pittore locale Giuseppe Barone (un disegno ed alcuni affreschi eseguite nelle chiese di Militello e Carlentini. Infine, a metà degli anni ‘6o, uscì una bella cartolina con un disegno del pittore Santo Marino, Fratelli. Uscì pure, molto bella, una cartolina pubblicitaria della Farmacia Campisi, fotografata da Nicolò Sinatra, un vero e proprio Alinari (il testimone con le sue stampe della vita fiorentina) per la piccola Militello della prima metà del ‘900. Sinatra fu anche tipografo ed a lui si deve un tentativo di produzione locale di cartoline. Se ne conoscono quattro esemplari, tutti di buon gusto, riproducenti affreschi. Verso gli anni ‘40, una novità la portarono le cartoline prodotte dalla cartoleria-merceria di Giovannino Scirè e dalla Cartoleria Barrasso: i fotografi firmano le loro immagini. Scirè utilizzò fotografie di Nicolò Sinatra e di Vincenzo Musumeci. Barrasso usò quelle di Francesco Severino, di Gerardo Campisi, di Benedetto Barone, di Francesco Barrasso, di Nicolò Sinatra e di Santospagnuolo. La cartoleria Barrasso è quella che ha dato più immagini di Militello. Nella sua produzione possiamo enucleare alcune serie, o in base alle scritte, o in base al fotografo, o in base al tipo di carta: 1) scritta frontale “Militello V.C.”; 2) scritta frontale “Saluti da Militello Val Catania”; 3) serie di fotografie di Santospagnuolo; 4) scritta frontale “Militello V.C.” su carta stralucida; 5) scritta frontale “Militello (Catania)”; 6) scritta sul retro. Con Barrasso e Scirè, infatti, cominciò pure la produzione di cartoline su carta stralucida. Sempre su carta stralucida sono i pezzi prodotti da Giovanna Cultraro, che si affidò All’Industria cartolineA. Ragazzi di Piacenza. L’attività fu poi continuata dalla ditta Barone, con la quale probabilmente ci furono la prime cartoline colorate. Fanno seguito a questa produzione molte cartoline in BN senza indicazioni. Erano già gli anni ‘60, quelli del “boom” economico. In una cartolina di questo periodo si vede il fabbricato razionale e moderno sede del Banco di Sicilia. Un discorso a parte meritano le cartoline prodotte dal cav. Francesco Di Stefano, cartolibraio. Le fotografie sono di Nino Chisari e raffigurano Gesù alla colonna e la chiesa di San Benedetto su cartoncino leggero e matto, testimonianza che gli scarsi mezzi possono determinare un gusto ottimo. Le chiese hanno avuto un ruolo importante nell’editoria delle cartoline. Bisogna dire, però, che, nonostante i tesori d’arte ch’esse custodiscono, spesso hanno prodotto immagini dal gusto esecrabile. Le fotografie dei Santi sono quasi sempre piatte, dure, senza alcuna fantasia nell’inquadratura. Il cattivo gusto comanda, soprattutto nelle immagini a colori. Così, poche cose sono più orride di certe immagini militellesi dell’Immacolata, del Cuore di Gesù, del SS. Salvatore e della Madonna della Stella. Anche la Tipografia 2000 di Palagonia ha stampato alcune immagini del SS. Salvatore, con gusto documentaristico, ma accurato. Le più recenti serie di cartoline a colori (anni ‘70 e ‘80) sono quattro: la prima è senza indicazione di proprietà riservata e conta sette esemplari. Dà documentazione soprattutto dell’architettura; la seconda, di cinque esemplari, è stata stampata dalla GM. In essa si prediligono gli scorci tipici; la terza, di quattro esemplari, è un’edizione della tabaccheria di Santo Marchese; la quarta, di quattro esemplari, è un’edizione delle sorelle Caminito. (S. Gar.)

Caruso, Filippo (Militello, 1593-ivi, dopo il 1671), storico. Nacque il 12 maggio da Francesco Caruso e da Laura Jacobelli. La sua famiglia era fra le prime di Militello, avendo parentela con gli antichi signori della città (il suo bisavolo, Matteo, aveva sposato Leonora Barresi, figlia naturale del marchese di Militello, Giovan Battista). Fu tra i paggi d’onore di don Francesco Branciforti, traendo gran profitto intellettuale, oltre che sociale, da questa confidenza col principe, poiché se ne dichiarò discepolo nello studio della filosofia e della matematica. Nel 1639 lo troviamo segreto baronale di donna Margherita d’Austria e di don Federico Colonna. Ebbe quattro mogli che gli diedero numerosa figliolanza. Dei suoi discendenti troviamo notizie fino al settecento, quando morirono gli ultimi rappresentanti della famiglia, il barone della Sanzà e di Rossitto ed il frate domenicano Giovan Tommaso Caruso, chelasciò tutti i suoi beni al convento. Lasciò alcuni manoscritti sulla storia delle famiglie Barresi, Branciforti e Santapau, che ancora oggi costituiscono la principale fonte di storia patria antica. Eccone i titoli: 1) Breve relazione della tre famiglie di Barrese, Santapau, e Branciforti annodate in un nodo indissolubile in Sicilia fatta da D. Filippo Caruso di Francesco della Terra di Militello V. di N.; 2) Historia geneologica delle tre famiglie di Barresi Santapau, e Branciforti annodate in un nodo indissolubile in Sicilia di D. Filippo Caruso della città di Militello V. di N. dedicata all’Eccellenza Illustrissima del signor D. Giuseppe Branciforti Principe di Butera, Marchese di detta città, anno 1658; 3) Quinterno di cose memorabili. Fu, inoltre, autore di discorsi di argomento sacro e di panegirici, alcuni dei quali vennero inseriti nei manoscritti citati. Dalla scrittura del Caruso traspare una sincera ed ingenua adesione agli ideali nobiliari, per cui le sue migliori qualità, più che nello spirito critico, le troviamo nelle descrizioni minuziose e vivide e nella freschezza delle espressioni dialettali, che rendono simpaticamente improbabile il suo italiano. (S. Gar.)

Caruso, Francesco (Militello, 1587-ivi, 1646), religioso. Fratello del cronista Filippo, vestì l’abito dei frati cappuccini, distinguendosi come eccellente predicatore. Dovette possedere una buona erudizione, come attestavano le note scritte di suo pugno in margine alla versione del Fazzello fatta da Remigio Fiorentino. Purtroppo, esse in gran parte sono andate perdute, perchè la biblioteca del convento dei cappuccini (di cui il volume faceva parte) non si trova più a Militello. Fortunatamente, grazie alla trascrizione dello storico Vincenzo Natale, si è salvato un appunto molto importante per la storia della città. Infatti, commentando la congiura dei baroni siciliani al tempo del vicerè Pignatelli, Francesco Caruso ci dice che ne fece parte Giovan Battista Barresi, signore di Militello (che perciò morì rinchiuso nella fortezza di Palermo). Inoltre, uno dei capi di quella congiura, Piruccio Juvenio, era cugino carnale di D. Alonzo Caruso, figlio di Matteo e nonno dello stesso Francesco. (S. Gar.)

Caruso, Giovan Battista (Militello, sec. XVII), musicista. Fratello del cronista Filippo, fu canonico e compositore di musiche apprezzate alla corte del principe don Francesco Braciforti. Per la sua bella voce, inoltre, fu chiamato “Il grillo siciliano”. La stima che si meritò ci viene attestata dal fatto che espletò l’incarico di maestro di musica di donna Margherita d’Austria, principessa di Butera. (S. Gar.)

Caruso, Nicolò (Militello, sec. XVII), poeta. Fratello del cronista Filippo, si laureò in diritto civile e canonico. Fu molto apprezzato dal principe Branciforti e dalla sua corte per i versi siciliani in cui potè esprimersi il suo spirito faceto. Venne, infatti, nominato principe dell’Accademia (la presenza di questa accademia, fra l’altro, ci dà un’idea della gran quantità di letterati che in quel periodo vissero ed operarono a Militello). (S. Gar.)

Ciccaglia, Pietro (Militello, inizi sec. XVII), notaio. Era sicuramente in attività verso il 1620. Nel 1638 diventò ricco, sposando la figlia di un certo Scipione La Russa, che, come lui, era arrendatario dello stato di Militello. Alla sua morte, l’eredità passò al marito della figlia, il barone di Reburdone, che per lungo tempo visse a Militello e di cui resta il palazzo (successivamente, il Reburdone si trasferì prima a Caltagirone e poi, nel frattempo diventato principe, a Catania). Nello stesso periodo ci fu, inoltre, un altro Pietro Ciccaglia considerato un ottimo medico. (S. Gar.)

Colosso, Antonio (Messina, sec. XVII), erudito. Fu una delle più prestigiose presenze alla corte del principe don Francesco Branciforti, signore di Militello. Godette di meritata fama per la cultura cultura classica e per la profonda conoscenza della lingua greca, poiché era erede della scuola del messinese Lascari, alla quale non era stato estraneo Pietro Bembo, il più grande erudito del Rinascimento. Probabilmente, introdusse il coevo poeta Pietro Carrera allo studio della numismatica e dell’antiquaria. Fu pure autore di buoni versi latini. (S. Gar.)

Comparetti, Alessandro (Paternò, inizi sec. XVII-Caltagirone, 1637), pittore. Attivo a Militello, dipinse la Nascita e la Decollazione di San Giovanni Battista, oggi nel Museo di Santa Maria della Stella. (S. Gar.)

Conti, Giuseppe (Militello, sec. XVII), chimico. Lo accompagnò una reputazione professionale ottima e non soltanto locale. L’8 gennaio 1623 la principessa donna Giovanna d’Austria gli commissionò l’imbalsamazione del corpo di don Vincenzo Branciforti, fratello del suo sposo, il principe don Francesco Branciforti. (S. Gar.)

D’Orlando, Leonardo (Militello, sec. XVI), medico. Il suo prestigio professionale fu notevole, soprattutto nella cura delle febbri maligne. Molto alta fu pure la considerazione sociale in cui visse. Nel 1584, infatti, tenne a battesimo Vincenzo Branciforti, terzogenito di don Fabrizio Branciforti e di donna Caterina Barresi, signori di Militello. Un Orlando d’Orlando vissuto nello stesso periodo, probabilmente suo parente, dottissimo in diritto civile e canonico, fu tra i Giudici della Gran Corte civile di Palermo, dove morì. (S. Gar.)

D’Urso, Alfio (Militello, inizi sec. XVII-ivi, 1696), medico e scrittore. Il Mogitore ci informa che fu dottore nella filosofia e nella medicina, oltre ad essere amantissimo delle facoltà poetiche. Anche l’abate Amico ed il Fazio lo collocarono fra i siciliani illustri del tempo. Stampò a Catania nel Palazzo del Senato per i tipi della tipografia Bisagni(senzaindicazionedidata) Il piccol saggio delle grandezze della nobile casa Bottigliero, dove la sua grande dottrina venne profusa con un’eloquenza e un umorismo pieni di esagerazioni e di sottigliezze, com’era tipico nel seicento. Fu, inoltre, autore dell’azione drammatica Il Giuseppe giusto. (S. Gar.)

De Mauro Antonio, (Bivona, sec. XVI), pittore e scultore. Era conosciuto dal pittore e scultore militellese Nicola Barresi ed il 7 ottobre 1574 venne incaricato di scolpire un Sant’antonio Abate per l’omonima chiesa. Un’errata tradizione ha poi attribuito a Giovan Battista Baldanza questa statua di cartapesta su bara lignea. (S. Gar.)

Di Benedetto, Ignazio (Militello, 1688-ivi, 1715), religioso ed erudito. Figlio di Francesco Di Benedetto e di Antonina Bellardita, volle essere sacerdote e divenne canonico della Chiesa Collegiata San Nicolò-Santa Maria della Stella (l’esperienza della Collegiata fu un tentativo che nel 1710 le autorità religiose misero in atto per por fine alla secolare e violenta rivalità fra queste due parrocchie, che però fallì dopo appena cinque anni). Nonostante la giovane età, arrivò ad essere lettore di logica e filosofia nel Seminario Vescovile di Catania. Di lui ci restano alcune Tesi, sostenute nella qualità di cattedratico, in una conclusione tenuta nel Seminario dal suo allievo Vincenzo Adamo, pubblicata a Catania nel 1714, presso la stamperia Bisagni. (S. Gar.)

Entità, Raffaele Alfredo (Lentini, 1907-Catania, 1992), critico d’arte. Dopo gli operosi primi vent’anni trascorsi interamente a Militello (era figlio adottivo di un militellese), soltanto durante il servizio militare imparò a leggere e scrivere. Nel 1947, però, si laureava in lettere con 110/110 lode e diritto di stampa presso l’Università di Messina, discutendo una tesi sugli “antonelliani” (con prticolare riferimento ad Antonello De Saliba). Nel 1960 fu insegnante di storia dell’arte e nel 1961 direttore negli Istituti Statali d’Arte, svolgento intensa opera di organizzatore e di studioso di manifestazioni artistiche. Fu Ispettore Onorario ai monumento per la città di Catania e critico d’Arte del “Giornale dell’Isola”, oltre che collaboratore de “Il corriere di Sicilia”, “La Sicilia”, “Messana” (rivista dell’Università di Messina), “La giara” (periodico dell’Assessorato alla Pubblica Istruzione della Regione Siciliana). I principali studi da lui scritti furono: Catania e Palermo, in Città e paesi d’Italia, Novara, Istituto Geografico De Agostini; Il poema epico e cavalleresco de lo Steri di Palermo, Messina, Facoltà di Lettere e Filosofia; Un pittore siciliano in Umbria: Iacopo Santoro da Giuliana, Messina, Facoltà di Lettere e Filosofia; Iacopo Del Duca da cefalù, discepolo di  Michelangelo. Merita di essere ricordata, infine, una sua pubblicazione dal titolo indubbiamente originale, Nulla, attualmente conservata nella Biblioteca Comunale di Militello. (S. Gar.)

Falcone, Salvatore (Militello, 1756-ivi, 1806), incisore. Autodidatta, fu maestro nel disegno e nell’incisione, prediligendo le piccolissime dimensioni. Eseguì copie da artisti famosi, ma seppe pure ritrarre con prodigiosa somiglianza personaggi e paesaggi di Militello. Vincenzo Natale ci dice di due boccioli di canna incisi da lui, dove le figure e i paesaggi erano ben distinti, nonostante lo ristrettissimo spazio. Si sa pure di un suo presepio con figure in rilievo non più grandi della metà di un dito, eppure ricco di particolari nettamente figurati. Per la sua abilità nel disegno, molti ingegnieri ricorsero a lui per un aiuto, aiuto che non negò mai a nessuno e dette sempre in forma anonima. Di lui non si conosce alcuna opera di grande misura. (S. Gar.)

Fazio, Ludovico (Militello, 1707-Modica, 1763), religioso e storico. Nacque da Giuseppe Fazio e da Francesca Di Natale e si fece monaco francescano, vivendo nel convento di S. Francesco d’Assisi. I suoi scritti di storia patria presero lo spunto polemico da un’Orazione genetliaca del frate cappuccino Francesco d’Aidone, dove con una fantasia davvero barocca le origini di Militello venivano collocate nell’antica Ninive di Babilonia. Ad essa il Fazio rispose con Il Militello vendicato, ossiano Ragioni Storiche dell’amico sincero a Pisandro Antiniano, colle quali si dimostra favolosa l’orazione genetliaca recitata in Militello V. di N. dal Padre Francesco d’Aidone Cappuccino nel dì 8 settembre 1756. Disposte da Franco Martellatore da Nesos. In Catania per le stampe del Pulejo 1757. Successivamente, il scrisse Breve ragguaglio dello stato antico e presente della città di Militello Val di Noto del celebre storico D. Pietro Carrera, disposto da fra Ludovico Fazio Francescano Conventuale nell’anno 1758. Al di là della modestia esibita nel titolo, l’opera non può considerarsi una mera trascrizione delle notizie date dal Carrera. In essa, piuttosto, l’autore dà prova di una grande capacità di mettere in ordine tutti i precedenti studi storici. Nella prima parte, infatti, appoggiandosi al Carrera, narra le origini della città e, appoggiandosi al Caruso, elenca i signori di Militello. Nella seconda parte tratta delle chiese, dei conventi, dei monasteri, delle confraternite e dei religiosi che ebbero fama. Nella terza si sofferma sugli uomini illustri. Lo storico Vincenzo Natale, inoltre, attribuì al Fazio lo scritto anonimo La Verità in trionfo, ovvero Ragioni storiche colle quali si sostiene Santa Maria sotto il titolo della Stella, Unica e Singolar Padrona della Città di Militello Val di Noto. Raccolte, e disposte da un divoto battezzato nella chiesa di S. Nicolò a 25 Settembre dell’anno 1707. Dedicate al Santo dei miracoli, e miracolo dei Santi San Nicolò il Grande Arcivescovo di Mira. (S. Gar.)

Ferlito, don Ramunnu (Militello, sec. XX), pittore. Si sa che era un ottimo decoratore di carretti, anche se non è rimasto nulla che gli si possa attribuire con certezza. Così, le notizie che lo riguardano sono tanto scarne, che persino per conoscerne il cognome si sono incontrate non poche difficoltà. (S. Gar.)

Feste popolari. Una tradizione antica voleva che la pietà popolare per la morte del Cristo cominciasse il Mercoledì delle Ceneri. Sopra le “balate” della stradina che porta alla Chiesa del Purgatorio veniva appeso ad un filo un pupazzo raffiugurante una vecchia con infilate sette penne di gallina. Poi, ad una ad una, le penne venivano tolte ogni Venerdì di Quaresima. Una volta un momento importante era pure la predicazione quaresimale. Il Predicatore, già agli inizi del ‘600, svolgeva la sua opera a Santa Maria, tutti i Sabati e nella seconda e quarta settimana. Poi, intervenne l’accordo per cui  si predicava in Santa Maria nella prima e nella seconda settimana continuamente, mentre la predica dell’Annunziata veniva fatta nell’omonima Chiesa, così come quella di San Benedetto. La Predicazione della Bolla della S. Crociata, che durava tre giorni, veniva, invece, fatta in San Nicolò. Poi, la prima Processione delle Vocazioni, che si faceva di lunedì, andava a San Pietro; la seconda, di martedì, a San Giovanni; la terza, di mercoledì, a SantAntonio Abbate. Nella Domenica delle Palme la processione andava a S. Antonio Abbate, ma non entrava in chiesa, per cui si apprestava l’altare nel piano davanti alla porta sud e lì si recitavano le antifone in versetti e le Orazioni del Santo. Dopo, partiva la processione che, passando dietro San Pietro arrivava nella piazza davanti alla Chiesa Madre di San Nicolò. Qui il Clero ed i parrocchiani di San Nicolò entravano nel tempio, mentre il Clero ed i parrocchiani di Santa Maria se ne scendevano verso la loro chiesa. Quindi, tutt’e due le comunità, ognuna per i fatti propri, celebravano la Messa ed il Passio. Oggi le solennità cominciano il Giovedì Santo nella Chiesa di Santa Maria della Stella. Il secentesco Gesù alla colonna, scultura lignea di stile vicino a quelle di Fra’ Umile da Petralia, viene tratto fuori dalla sua abituale nicchia davanti ad una grande presenza di popolo. Dopo, un corteo silenzioso accompagna l’effige di Gesù per le vie della città. Al ritorno, cento colpi di cannone rendono lugubre il buio. Allora, i fedeli, risalendo la via Roma, vanno nella Chiesa del Calvario. Lì, stesa sul letto a simulare la Fine, trovano l’antica statua snodabile del Cristo. Qualche devoto la veglia per l’intera notte, finché all’alba, secondo la tradizione, ci si riscalda in sacrestia, al fuoco di un braciere. Il Venerdì, già di prima mattina, i confrati, vestiti di lunghi sai bianchi, vanno al Calvario. La statua del Cristo viene portata sotto il portico della Chiesa ed i preti cominciano la cerimonia della crocifissione, cosa che immancabilmente dà spunto alle immaginabili ironie. Chiodi e tenaglie si trovano su un cuscino ricamato, tenuto dalle verginelle. Con una lunga fascia passante sotto le ascelle, la statua viene issata sulla croce. Ad ogni chiodo che viene piantato, si sente il botto di una bomba, una bomba particolare, chiamata miana, confezionata per l’occasione secondo precisi canoni. Nel pomeriggio troviamo l’apice della spiritualità, quando i confrati in processione raggiungono l’Istituto delle Orfanelle, per prendere il nuovo letto, quello dove si depone il Cristo Morto. Questo letto vuoto, che gira per le strade del paese tra il tocco funebre delle campane, portando un brusìo di funerale nella folla che gli fa ala, pare la raffigurazione dell’universale destino ultimo. Così, al tramonto la statua del Cristo viene scesa dalla Croce e portata nella Chiesa di San Nicolò-SS. Salvatore per essere seppellita. Con i confrati vestiti di bianco ed i muri della via Roma punteggiati di rosso, si crea una scena di sfarzo e di severità. La banda accompagna i corteo con musiche di lutto, fermandosi alle stazioni. Tradizionalmente importante è la fermata della Firrera, per il canto del populameu. Giunta in chiesa, la statua viene solennemente posta su un catafalco, in cui spagnolescamente domina il colore rosso, e poi seppellita. Più tardi, defluito il pubblico, essa viene riportata in gran segreto nella Chiesa del Calvario. Ma, neppure in questi giorni di morte ci si dimentica dell’antica guerra che contrappone le due parrocchie della città, Santa Maria della Stella e San Nicolò-SS. Salvatore. C’è, semmai, una semplice tregua, con tanto di antesignana par condicio. I mariani si prendono la solennità del Giovedì ed i nicolesi quella del Venerdì.Sulla tradizione del VenerdìSantoa Militello, inoltre, risultano interessanti alcuni manoscritti presenti nell’archivio del Museo San Nicolò. Questi documenti fanno pensare che l’attuale manifestazione sia lo scheletro di un’antica Sacra Rappresentazione. In ciò ci conforta l’idea che in qualche modo si sia continuata l’attestata tradizione cinquecentesca (Carrera) di rappresentare la Passione di Cristo nella piazza di Santa Maria della Stella. Allora, lo spettacolo durava tre giorni e spesso la recita era in versi siciliani. In quell’occasione i Rettori delle Confraternite maritavano una o più povere “donzelle”, indi c’erano balli nella strada e nella piazza davanti alla Chiesa “ragunandosi tutto il Popolo, poiché vi ballava l’istessa Sposa, li parenti delli Rettori e le più belle donne della Terra, delle quali riguardevole e singolar bellezza Militello n’è doviziosa”. Non sappiamo perché col tempo sono scomparse le parole dalla recita del Venerdì Santo. Nei copioni ritrovati, comunque, risulta notevole la dimensione popolaresca dei personaggi. Maria ed i Santi che la contornano pensano e parlano secondo pregiudizi che oggi sarebbero inammissibili. L’ingiuria nei confronti degli ebrei è violenta e continua. Ciò inquieta particolarmente, dato che una zona vicina alla città si chiama Chian’e furchi, perché vi furono impiccati degli ebrei. Notiamo, ancora, che i santi non soltanto hanno espressioni poco cristiane nei confronti di chi ha ucciso Gesù, ma sono davvero dei benpensanti. Nei loro giudizi è assente ogni pietà cristiana, specialmente quando si riferiscono ai ladroni compagni di Gesù. La più antica opera datata è del 1749 e ne esistono diverse varianti (alcune precedenti). La sua lunghezza (che è quella media dei copioni) è di quindici facciate formato quaderno. Le grafie dei manoscritti appaiono diverse. Le varianti sono spesso tautologiche, per contenuto e natura dei sentimenti; oppure, frammentano fra più interlocutori alcuni monologhi; o, ancora, inseriscono didascalie meglio specificate. Qualche volta, le varianti presentano una maggiore audacia nei barocchismi. Pochi i ripensamenti evidenziati dalle cancellature (molti, forse, legati a dubbi interpretativi del manoscritto più vecchio). Di notevole interesse sono, poi, le due feste patronali, quella del SS. Salvatore, che si celebra il diciotto agosto, e quella della Madonna della Stella, che cade l’otto settembre (alle quali, per i tempi più recenti, va aggiunta San Benedetto, l’undici luglio). In queste occasioni si può davvero dire che la città diventa un universo di diecimila secoli manzoniani l’un contro l’altro armati. Con corale tifoseria si svolge una sentita competizione fra le celebrazioni nicolesi e quelle mariane. Vince chi addobba le strade  con gli archi più luminosi, chi porta il cantante più conosciuto, chi spara i migliori fuochi d’artificio. La gara che appassiona di più è l’ultima. L’intera comunità sta a contare le ripetizioni, le spaccate, le napoletane che si susseguono nel cielo. Per denigrare il fuoco degli avversari, i membri dei due Comitati dei festeggiamenti si abbandonano a veri e propri bizantinismi sul rumore più o meno “asciutto” delle bombe. In verità, sia la festa della Madonna della Stella che quella del SS. Salvatore, con le relative lotte di campanile, hanno una tradizione secolare. Già nel ‘600 il Carrera accenna alla questione, parlando della diminuzione della popolazione per “causa delle molte inimicizie, che allora v’erano, pelle quali seguì la briga grande…” Nel 1611 il Principe Branciforti pensò bene di pubblicare un bando per regolare la “solennità di nostra sig.ra Maria della Stella”. In esso si ordinava ai soldati di uscire con la divisa e le armi dei dì solenni, sotto pena per i contravventori di una multa di sei tarì e di quattro giorni di carcere. Inoltre, si ordinava ai creditori di non importunare i loro debitori per tutti gli otto giorni di festeggiamenti. Si ha, inoltre, notizia che nel ‘500 e nel ‘600 in onore della Madonna si correva un palio e si svolgeva una fiera a cui accorreva la gente delle città vicine. Ed, ancora, si ha la copia di una ricevuta datata otto settembre 1628, dove si davano un’onza e diciotto tarì a Giuseppe Pitradilo di Palazzolo, per uno spettacolo di equilibrismo sulla corda, dal campanile di Santa Maria al piano sottostante. Altre feste di secolare tradizione che si possono ricordare, basandosi sull’autorevole testimonianza del Carrera, sono: Il Corpus domini, nella quale di mattina il Beneficiato di San Nicolò aveva la prerogativa di cantar messa in Santa Maria ed al Beneficiato di Santa Maria toccava l’Ufficio serale in San Nicolò; l’Assunzione, alla celebrazione della quale concorreva tutto il Clero, alternativamente un anno in Santa Maria e un anno in San Nicolò; San Marco, con una processione che si recava in Santa Maria. In quell’occasione i provetti raccoglievano l’elemosina, che poi andava al Clero. Purtroppo caduta in disuso, anche se da poco, c’era ancora una festa che aveva chiari scopi di beneficenza: A Bammina. Si celebrava il nove settembre ed in quell’occasione veniva adottata una poverella (a cui andava il ricavato delle offerte), per un metaforico battesimo della Madonna. C’è, infine, un momento in cui il paese vive in una generale pace (forse): il diciannove marzo, festa di San Giuseppe. Quel giorno, nella piazza principale viene bandita un’asta di beneficienza. Alcuni fedeli recano in dono animali, viveri e beni di vario tipo ed altri fedeli fanno a gara per comprarli ad un prezzo più alto del loro valore. Anche in quest’occasione l’intento è la beneficienza, perché il ricavato va a tre poveri, ai quali è stata affidata la parte di San Giuseppe, della Madonna e del Bambin Gesù. Fra le feste laiche dei nostri giorni, dobbiamo ricordare La Sagra della mostarda e del ficodindia, che si tiene nella prima settimana di ottobre, con stands gastronimici e spettacoli popolari, e La Settimana del Barocco a Militello, dove migliaia di visitatori vengono da tutta la Sicilia, ad ammirare il grande corteo storico, oltre alle danze, alla musica ed al teatro. (S. Gar.)

Focile, Matteo (Militello, sec. XVII), giurista. Fu parente del cronista secentesco Filippo Caruso, essendo figlio di un Pietro Focile e di una Fiomara Caruso. Esercitò con onore la sua professione in vari uffici, per tre volte fu giudice della Corte Pretoriana di Palermo ed infine, sempre a Palermo, ebbe l’incarico di giudice della Gran Corte. (S. Gar.)

Gallotto, Vincenzo (Militello, sec. XVI), medico. Il cronista secentesco Filippo Caruso ci informa ch’era particolarmente rinomato nella cura delle punture, o pleuritidi. Dovette, comunque, appartenere ad una famiglia al tempo considerata fra le prime, poiché, come risulta dal registro della Corte Vicariale, negli anni 1571 e 1572 era uno dei deputati alla fabbrica del monastero di S. Agata e si ha notizia di un notaio Leonardo Gallotto (probabilmente, il padre, o un parente stretto) operante a Militello nel 1576. (S. Gar.)

Gastone, Ignazio (Militello, 1640-Palermo, 1693), giurista. Terzogenito di Mario Gastone, fece i suoi studi a Catania, dove si laureò in legge. Fu ben presto considerato fra i primi letterati della città e per sette anni fu lettore nella cattedra di diritto pontificio presso l’Università. Per sette volte sedette giudice della Corte Patriziale. Da Catania passò giudice in Messina, dove era stato istituito il nuovo tribunale. Lì fu prima Avvocato Fiscale e poi Ministro, titolo corrispondente al grado di Presidente. Fu anche tre volte giudice della Gran Corte di Palermo ed ottenne la toga perpetua d’Avvocato Fiscale nel tribunale del Real Patrimonio. Nel 1693, pochi mesi prima della morte, Re Carlo II lo elesse Presidente del Concistoro e lo onorò del titolo di Marchese. Di lui si ricordano le seguenti opere: Disceptationes fiscales notis politicis illustratas et in supremis siciliae praetoris definitas. Tom. prim. in quo Messanensis rebellionis series, et perfecti Principis Idea in civitate perduelli armis superata delineatur., Palermo, 1684; Disceptationes jurid. notis polit. illustratas, in quibus propugnantur antiquissimi, et famigerati catanensis gymnasii singularis erectio, et privata possessio quo ad omnes alias civitates in toto Siciliae Regno, Messina, 1689; Disceptationes jurid. not. polit. illustr. in quibus justa, et ratinalis proponitur Illustrium Deputatorum Regni petitio super novae legis promulgatione: ut Dotes de Paragio deiceps costituendas descententibus foeminis Baronum prole extinta ad feuda revertantur, Palermo, 1690;Consultatio pro stipendiis militum, Messina, 1687; Jiustificationes per la R.G.C., Madrid, s.d. (inlinguaspagnola). Un suo figliuolo. di nome Francesco, fu avvocato nei tribunali supremi di Palermo, Proauditore Generale dell’esercito e Giudice del Gran Corte negli anni 1706 e 1707. (S. Gar.)

Gastone, Mario (Militello, sec. XVII), giurista ed uomo politico. Appartenente ad una famiglia, quella dei baroni della Ingegna, fra le più nobili e ragguardevoli di Militello, secondo le notizie dateci dal cronista secentesco Filippo Caruso, fu segretario del principe don Francesco Branciforti e del Senato della città di Catania. Godette dell’amicizia e della dichiarata stima di due Vicerè, il duca di Suiello ed il conte di Modica. Sposò una Francesca Favara e da quel matrimonio, il 7 febbraio del 1640, nacque il grande giurista Ignazio Gastone. Un altro figlio suo, don Francesco Gastone, acutissimo in teologia scolastica e morale, dal 1646 fu parroco della Chiesa Madre di Militello. (S. Gar.)

Gastone, Michele (Militello, sec. XVII), religioso. Fratello del giurista Mario Gastone, fu monaco nel convento di S. Francesco di Paola di Militello ed eloquentissimo predicatore. Nel 1619 fu destinato dal Capitolo Definitorio tenuto a Messina a prendere possesso da vicario del nuovo convento di Noto. Nel 1621 recitò nella chiesa di S. Nicolò di Militello, alla presenza del principe Branciforti e della sua consorte, l’orazione per la morte del re Filippo III e nel 1623 si fece ancora apprezzare nel duomo di Palermo dal vicerè Filiberto Emanuele, cugino di Filippo IV e del cardinale Doria. Svolse, inoltre, con successo la missione di ambasciatore presso Filippo IV del principe Branciforti di Mazzarino e di suo fratello, il vescovo di Catania. Nel 1642 tenne un’orazione nei funerali del signore di Militello, il principe Federico Colonna (cheavevasposato la figlia del principe Branciforti, donna Margherita). Lasciò un quadragesimale da mandarsi alle stampe. (S. Gar.)

Guzzone, Sebastiano (Militello, 1856-Firenze, 1890), pittore. Si formò a Roma, nello studio di Filippo Casabene, dove non tardò a farsi notare per la scioltezza del disegno e la ricchezza delle soluzioni cromatiche. Fu pregevole acquarellista, anche se il plauso non mancò neppure ai quadri ad olio. I suoi soggetti, seguendo la moda romantica, predilissero le rievocazioni storiche. Ne ricordiamo alcuni titoli: Presentazione della sposa, Il traditore schernito, Festa in chiesa (attualmente nel museo d’arte moderna di Roma), La morte del Petrarca. La ricchezza delle architetture, il baluginare degli ori, il movimento dei drappi davano alle opere del Guzzone la piacevolezza del ricamo. Ecco perché ben presto esse furono apprezzate e collezionate (molto vivace fu, soprattutto, il mercato inglese). Oggi, se un limite vogliamo scorgervi, troveremmo un po’ fugaci i sentimenti vi sono espressi. Li con troppa facilità la storia si riduce al bel gesto e le realtà sociali più povere diventano sentimentalismo arcadico (ne è chiaro esempio Pastorello malato, attualmente nel museo del Castello Ursino di Catania). Anche quando Guzzone, come dimostra l’opera Scena in giardino, recepì certe novità della pittura “en plein air” degli impressionisti, lo fece in una versione inguaribilmente mondana. Oggi le sue spoglie riposano ne cimitero degli artisti di Firenze. (S. Gar.)

Jacobelli, Giuseppe (Militello, sec. XVII), giurato. Forse fu prete, cosa possibile poiché ai suoi tempi lo stato ecclesiale non impediva di ricoprire cariche civili. Di lui abbiamo notizia il 14 giugno 1628, quando, con altri tre giurati (Antonino Milana, Pietro Sanzà e Mario Gastone), presso il notaio Giovan Battista Sanzà fece procura al conte Majolino Bisanzone per impedire al principe di Scordia di proseguire la fabbrica della città di Scordia. Il prestigio sociale della sua famiglia viene confermato da un Pietro Jacobelli, ch’ebbe fama di medico eccellente. (S. Gar.)

Laganà Campisi, Francesco (Militello, 1845-ivi, 1868), benefattore. Fu protagonista e vittima di un fatto di sangue, che segnò il passaggio del potere locale dal barone Salvatore Majorana Cocuzzella al senatore Salvatore Majorana Calatabiano. L’episodio avvenne durante i festeggiamenti mariani dell’otto settembre, quando il Laganà Campisi ed i suoi amici (liberali e partigiani della parrocchia di Santa Maria della Stella, detti pure i comici, o i cavallacci) sbeffeggiarono il barone Majorana Cocuzzella (ch’era il sindaco e sulla città deteneva un potere quasi assoluto, oltre ad essere fervente sostenitore della parrocchia avversa, San Nicolò-SS. Salvatore). I detti comici, infatti, passando sotto il balcone del Majorana Cocuzzella con la statua della Santa in spalla, anzicché fermarsi a raccogliere l’offerta, accellerarono il passo tra i fischi ed i lazzi rivolti al barone. Fu detto che, facendo così, essi avevano contestato l’”inchinata”, una sorta di omaggio feudale, per cui i fedeli in processione usavano fermarsi ed inchinarsi davanti al balcone del signore della città. In verità, tale barbara abitudine era già stata abolita dallo stesso sindaco Majorana Cocuzzella. Purtroppo, qualche ora dopo, la provocazione ebbe la conseguenza di un tafferuglio fra le due fazioni vicino al “casino dei nobili” e lì il Laganà Campisi rimase ucciso a coltellate. Nel processo che ne seguì il barone Majorana Cocuzzella, accusato dell’omicidio, anche se fu assolto in corte di Assise, ebbe distrutta la carriera politica e chi ne trasse giovamento fu l’emergente Salvatore Majorana Calatabiano, l’uomo che la madre dell’ucciso aveva sposato in seconde nozze. Per volontà testamentaria di Francesco Laganà Campisi, le sue sostanze servirono per la fondazione di un’asilo infantile. (S. Gar.)

Laganà, Benedetto (Militello, sec. XVIII), religioso e drammaturgo. Vestì l’abito dei frati cappuccini e si distinse come predicatore di vasta dottrina. Nel 1752 , presso Bisagni di Catania, pubblicò Il profeta abborrito, ossia Cristo al Calvario, ed alla sepoltura, azione sacrotragica e nel 1755, presso Pulejo di Catania, Cristo condannato, azione sacrotragica. Scrisse, inoltre, altri sette drammi di argomento sacro: Cristo nel presepio, Il ritorno di Egitto, La gara dell’amore fra Gesù Sagramentato e Militello, Il vero omaggio a Gesù Sagramentato, Cristo nei tribunali, Il Compedio della passione, Cristo resuscitato. Tutto il teatro del Laganà fu poi ristampato da un suo fratello presso la stamperia Valenza di Palermo nel 1763, col titolo generale di Il teatro del Cattolico. Opere sacre abbozzate dal padre Franc. Benedetto da Militello Predicatore Cappuccino della Provincia di Siracusa. Il pregio di queste opere è la versificazione accattivante e musicale, che ben si adatta alla recitazione all’aperto. Fu anche autore di un’Orazione panegirica in lode del glorioso martire S, Vito, protettore della città di Regalbuto, pubblicata presso la stamperia Valenza di Palermo nel 1759. Altri manoscritti del Laganà erano conservati nella biblioteca del convento dei cappuccini di Militello, prima che venisse trasferita altrove. (S. Gar.)

Lanza, Filippo (Militello, sec. XVI), religioso. Godette fama di uomo integro e dotto nel diritto canonico e civile. Per rescritto di Giulio III venne nominato parroco della chiesa di S. Maria della Stella a Militello, prendendo possesso del relativo beneficio per procura in persona di don Giuseppe Pretella, secondo l’atto del notaio Antonio Vitale, rogato il 14 gennao1554. Lo stesso Pontefice lo elesse Vescovo di Lipari il 13 aprile 1554. Pietro Carrera scrisse che fu pure Cappellano Apostolico.  Morì probabilmente nel 1557, poiché in una scrittura della Corte Vescovile di Siracusa del 29 ottobre di quell’anno si annuncia vacante il beneficio di S. Maria della Stella, dopo la morte del vescovo di Lipari. (S. Gar.)

Leggende. Sulle origini della città spesso le ipotesi si sono mischiate alle fantasie.  In una lettera scritta nel XVIII secolo, un certo Fra’ Dionigi da Pietraperzia disinvoltamenteidentificaMilitello con la gloriosa Trinakia, la città sicula che resistette ad oltranza contro la preponderante forza dei greci, durante la rivolta di Ducezio, a metà del V secolo a. C. La più accreditata tradizione sulla nascita di Militello, però, la si deve allo storico secentesco Pietro Carrera, che riferì di averla raccolta da un vecchio di nome Alonzo, il quale dichiarava a sua volta d’averla letta in gioventù in un libro andato perduto. Così, il Carrera dice che il primo nucleo di abitatori del luogo fu costituito da alcuni soldati romani, che nell’anno 214 a. C., durante l’assedio di Siracusa, si staccarono dal grosso delle milizie e vennero qui, a garantirsi dalla peste e dalla malaria. Questa ipotesi, secondo il Nostro, troverebbe conferma in un brano del cap. XXVI del libro XXV delle Storie di Tito Livio, dove si narra della peste scoppiata nelle file del console Marco Marcello. Ciò, fra l’altro, spiegherebbe il nome della città, sorto dalla fusione delle due paole latine militum e tellus, cioè terra di soldati. Un’altra leggenda riportata dal Carrera vuole che gli antichissimi fondatori siano stati i tre figli di Tieste, figlio di Atreo. Essi, dopo l’invasione della Grecia operata dai dori, sarebbero scampati avventurosamente alla morte e, alla fine di omeriche peripezie, sarebbero venuti a fermarsi qui. In questo caso, Militello potrebbe significare Piccola Mileto.  Un’altra ipotesi ci viene, infine, dallo storico Salvatore Abbotto. Egli, dopo molte disquisizioni linguistiche (in verità, un po’ arruffate nel metodo), pensò che Militello significhi Piccolo rifugio, derivando dalla parola melit (che in arabo del rifugio indicherebbe l’idea) e dal suffisso diminutivo ello. Così, con tale argomentazione l’Abbotto attribuiva la fondazione della città a genti della Val di Noto, che per scampare alle persecuzioni delle soldataglie islamiche, venne a ricoverarsi nelle grotte naturali del territorio. (S. Gar.)

Madonna della Stella e figurazione artistica. La più antica immagine della Madonna presente a Militello, La vergine col Bambino e due angeli inginocchiati, è una scultura in arenaria del tardo ’400, posta sopra il portale della chiesa di Santa Maria la Vetere. Ha avuto diverse attribuzioni: Enzo Maganuco non ha escluso la collaborazione di Francesco Laurana, Gioacchino Di Marzo ha parlato di fattura gagginesca, Stefano Bottari l’ha ritenuta opera del carrarese Gian Battista Mazzolo. La personalità dell’autore, comunque, appare già regolata dalla disposizione delle figure, con una concezione dell’operare artistico che ci ricorda il rigore rinascimentale. La circolarità della lunetta (esaltata dal profilo delle ali degli angeli e tendenzialmente ripetuta dalla curva dei loro corpi inginocchiati) racchiude un quadrato, entro il quale s’incastra come un triangolo l’immagine di Maria. Il bilanciamento dei volumi e dei chiaroscuri risulta preciso, anche se il panneggio è alquanto tormentato e la dolcezza del viso della Vergine propone un forte impatto emotivo. La positura frontale della figura, però, resta di sapore arcaico. Evidentemente, l’artista ha mediato tra l’acquisita arte catalana e le novità del razionalismo del centro Italia. Secondo il Maganuco, di scuola lauranesca sembra pure un frammento marmoreo raffigurante la Vergine Annunziata. Purtroppo, il viso è in parte corroso, ma tipici del Maestro dalmata, sempre a detta del Maganuco, sono il ritmo del drappeggio e la curva nell’angolo che iscrive la figura. La scuola del Gaggini è rappresentata da una Madonna col Bambino, statua attualmente ubicata nella sagrestia della nuova Santa Maria della Stella. Anche qui convivono esperienze culturali diverse: l’arcaismo nella rigidezza della figura, la dolce espressività catalana nell’ovale del viso e, contemporaneamente, il drappeggio sobrio, largo e naturale. Si intravede, inoltre, la concezione “matematica” dell’opera, per la quale il volume rappresentato dal Bambin Gesù viene equilibrato nel lato opposto, ponendo Maria con la spalla leggermente alzata, col braccio all’altezza del seno e col ginocchio piegato in avanti. Di uno stile fra l’arcaico ed il rinascimentale, ancora, è una Madonna della Catena, incastrata entro un muro dell’attuale piazza Vittorio Emanuele II. Invece, nell’Annunciazione del 1572, prima nella chiesa di San Francesco di Paola ed ora nel Museo di San Nicolò, abbiamo un raffinato gioco di intelligenza. La fuga prospettica delle architetture crea lo spazio e gli accostamenti cromatici sono eleganti e culminano nella luce viva dei gigli in mano all’angelo annunziante (l’ideale centro del quadro, il punto di raccordo tra il divino e l’umano). Il viso della Vergine è disteso; ha l’espressione serena di chi ha chiara l’esperienza che si avvia a vivere. Qui bellezza ed intelligenza coincidono. Non vi è la rappresentazione di un mistero, ma la chiara esplicitazione di un fatto. L’umanesimo trionfa. Con Filippo Paladini, autore della Madonna degli Angeli (ubicata nell’omonima chiesa), facciamo un salto nel tempo ed avvertiamo le inquietudini della controriforma. Paladini veniva dalla Toscana, ma visse ed operò a Militello dal 1612 al 1614. Il suo manierismo fu rinnovato e rinvigorito dalla lezione del Caravaggio. Ecco perché anche con lui i miracoli diventano puri accadimenti, anche se non c’è la conseguenzialità del Merisi. Il Nostro li riduce a semplice “maraviglia”. Nelle sue opere le luci sono radenti e taglienti. Eppure, perduto dietro gli sfoggi tecnici, raramente crea il dramma. Si vede che siamo nel secolo dove, come scrisse il De Sanctis, la “vita interna è naturalismo in viva opposizione con l’ascetismo”. A ben guardare, l’arte sull’arte, tipica dei manieristi, è disperazione. Ammette l’impossibilità di parlare della vita. Di più, ha il sospetto che nell’indifferente scorrere del tempo la vita non esista. Un manierismo di più disimpegnata eleganza si esprime nel movimento sinuoso ed ascensionale delle linee della Madonna del Rosario, scultura in legno policromo attualmente posta nell’abbazia di San Benedetto. Mentre nella nuova chiesa di Santa Maria della Stella, c’è un’interessante Madonna della Stella di Giacinto Platania, pittore secentesco nativo di Acireale. E’ un’opera che si stacca dalla coeva cultura figurativa; ma, nel senso che essa guarda all’indietro. La Vergine, insieme al Bambino, è raffigurata frontalmente. La corona, lo scettro, l’espressione ieratica e lontana danno il senso più dell’istitituzione che dell’intimità religiosa. Dal Platania ci viene l’immagine della potenza. Per lui sono passate invano le inquietudini caravaggesche. Sic non transit gloria mundi. Nello stesso tempio troviamo un’altra visione popolare della divinità, fatta di regalità e dolcezza, con la statua della Madonna della Stella, che la popolazione devota porta in processione, l’8 settembre di ogni anno. Nel ’700 il quadro difficilmente si pone come discorso finito, come microcosmo conchiuso in se stesso. Esso, piuttosto, tende a diventare un elemento architettonico, parte di un più generale concerto visivo. E’ l’epoca dei frescanti. Di essi, i più aggiornati guardano con attenzione l’opera dei decoratori romani e napoletani. La bravura consiste nel rendere ricco il lampeggiare di colori e l’intrico delle decorazioni. In questo campo i maggiori furono Olivio Sozzi e Vito D’Anna. Del Sozzi vale la pena di ammirare La nascita della Madonna (la pala d’altare posta in Santa Maria della Stella; ma, soprattutto, il bozzetto esposto nell’annessa Stanza del tesoro). L’opera è piena di movimento ed unitaria al contempo. Il punto di massima attenzione è leggermente spostato a sinistra. Da lì si diparte una spirale di figure, che dal fondo buio, dalle viscere della terra, arriva al forte rilievo del personaggio in primo piano, per ritornare poi verso l’alto, su, fino a toccare il cielo. I partecipanti all’evento, nell’espressione dei visi e negli atteggiamenti, sembrano i protagonisti di uno di quei tipici e raffinati ricevimenti coi quali il Settecento andava incontro alla catarsi insanguinata della Rivoluzione Francese. L’opera di Vito D’Anna, visibile in Santa Maria della Stella, è un Viso di Maria di misteriosa e palpitante bellezza. Il Manganuco l’attribuì a “un pittore come il Tuccari, ma che abbia studiato a lungo il Reni” e, così, colse le ascendenze culturali del dipinto. In esso la stesura dei colori è concentrata. Il breve spazio dell’ovale del viso è ricco di inavvertibili passaggi di tonalità, di infinite temperature cromatiche. Nello sguardo della Vergine c’è una segreta inquietudine ed un’umiltà che contraddice i luccichii dell’epoca. Così, profondità d’introspezione e composta dolcezza fanno di questo lavoro una delle più alte espressioni artistiche che si trovano a Militello. Le immagini della Madonna dal Settecento all’Ottocento nella chiesa di Santa Maria della Stella sono tantissime. C’è un’Immacolata con San Francesco e Santa Caterina, una Madonna della Stella proveniente da San Pietro, un Cuore di Maria da Santa Maria del Circolo, una Madonna col bambino e San Gaetano, dono del barone Reforgiato, una Madonna del pittore ottocentesco militellese Sebastiano Guzzone (altri la attribuisce al calatino Vaccaro). Nel museo San Nicolò, ancora, si trovano un’Immacolata, un’Addolorata di Sebastiano Conca e un Volto della Madonna. Opere di fattura diversa, molte di piccolo respiro, di ispirazione scolastica e di esecuzione non inappuntabile. Tutte, però, di grande valore affettivo ed evocatrici di fatti storici. Una di quelle che si trovano in Santa Maria ci interessa particolarmente, perché conserva ancora il segno di un sacrilego calcio, a testimonianza di una fede che si esalta nel conflitto. Del ’900 è, invece, il militellese Giuseppe Barone, artista del quale resta una grande traccia negli affreschi delle due chiese principali. In una collezione privatavièuna sua Madonna della Stella, che ci dà una severe e regale immagine della Vergine. Vi si ammirano particolarmente il tono caldo e brillante, i ricami del manto ed i disegni dei gioielli. E’ tutto un lussureggiare prezioso, un susseguirsi di arabeschi luminosi di popolaresca eclatanza, uno sfarzo spagnolesco. Maria torna ad essere regina del mondo, ma non dell’anima. Militellese è pure Santo Marino, autore di poetica neorealista morto qualche anno fa. In Santa Maria della Stella vi sono due sue opere, Maria a Nazareth e Per Maria, madre di Dio. La prima seduce per l’atmosfera vaporosa e delicata, resa soprattutto dal libero gioco cromatico delle pieghe del manto. Maria tiene il Figlio con compiacenza materna. Il suo atteggiamento è intimo, quotidiano, umano e, così, la Madonna rivive nelle madri del popolo. La seconda ha una vasta gamma di velature, un continuo trascolorare di verdi e di azzurri. Il punto di massima intensità luminosa è il viso della Santa e lì c’è un movimento del capo, che è come un andare incontro, un amorevole e sollecito porgersi. Al discorso sull’iconografia mariana, per la non comune qualità delle opere, bisognerebbe aggiungere una illustrazione dell’arte presente in Santa Maria della Stella. Ne sono immediato esempio le più antiche opere, dal portale di Santa Maria la Vetere al sarcofago di Blasco II Barresi, per arrivare ad un bassorilievo che può aprire la serie dei gioielli locali: il Ritratto di Pietro Speciale (ora posto nella stanza del tesoro), che l’Agati ed il Mauceri hanno convincentemente attribuito a Francesco Laurana. Di quest’opera, Enzo Maganuco e Leonardo Sciascia hanno parlato in termini entusiastici. Di certo, essa, nel migliore spirito rinascimentale, appare la concretizzazione di un ideale di umanità che vuol essere universale ed eterno. Più che le fattezze di Pietro Speciale, infatti, tratteggia il concetto di forza e di autorità. Le linee sono marcate e decise, senza indugi nei particolari. Il viso è teso e concentrato: mento prominente e volitivo, labbra serrate, sguardo attento e penetrante. Vengono, così, sintetizzate nell’espressione di un attimo il carattere e la volontà di tutta una vita, di tutta un’epoca. In un periodo posteriore, ma vicino, va collocato il San Pietro e storie, scoperto da Enzo Maganuco in Santa Maria della Stella nel luglio 1926. E’ un “retablo”, particolare tipo di polittico, con al centro la figura del Santo ed ai lati otto riquadri raffiguranti episodi significativi della sua vita. Nel pannello centrale il Santo siede nella gloria della cattedra in una positura arcaicamente frontale. Tutto in lui ed in ciò che lo circonda esprime dignità ed ieraticità regali: il gesto benedicente, lo sguardo dolce (ancor più ammorbidito dal capo leggermente inclinato), il ricco ricamo delle vesti e del tappeto, i due angeli ai suoi fianchi. Di fronte, testimone di tanta gloria, sta un frate domenicano in preghiera e meditazione. Forse, è lo stesso frate dei quadri del Beato Angelico. Forse, anch’egli si trova lì “per dire che quella è la visione dei vari misteri secondo la religione domenicana, le regole ascetiche dell’ordine. Non c’è natura né storia perché la regola pone i monaci in comunicazione diretta, senza bisogno di quei tramiti, con le verità della fede: dunque la fede è ancora un processo o un modo dell’intelletto, il più alto”(Argan). Ma, se si può fare a meno della natura e della storia per intendere San Pietro nella perfezione divina, la natura e la storia sono presenti nella sua azione terrena. Negli otto pannelli, perciò, le regole della prospettiva costruiscono matematicamente lo spazio. La realtà, il teatro delle gesta del Santo, per essere realtà-realtà, è dipinta come realtà misurabile. Guardate, per esempio, il riquadro che ci fa vedere La resurrezione di Tabita, il secondo verso il basso a sinistra di chi guarda. Lì, il Santo occupa uno spazio preciso, dato dal digradare delle colonne e dalle linee del pavimento che corrono verso il “punto di fuga”. Ogni figura vive ed acquista credibilità per un rapporto di dimensioni, che la mette in un rapporto spaziale. E’ la grande conquista dei quattrocentisti, la visione scientifica e laica del mondo, la terza dimensione che cattura la “verità effettuale”. Fino ad un certo punto, però. Nel dipinto non trova posto il disordine, anche se esiste pur esso. La realtà, in un certo senso, è ridotta a misura della capacità umana di perfezionare l’opera di Dio. Fu, forse, questa l’inizio della bestemmia che oggi ci inquieta con l’ingegneria genetica.  Nel catalogo, pubblicato nel 1953, in occasione della mostra su Antonello da Messina, la data di esecuzione di questo autentico capolavoro è collegata all’attività di un Maestro della Croce di Piazza Armerina, operante tra il 1460 e il 1480. Le attribuzioni sono state tante. Si è parlato di Antonello De Saliba, di Pietro Ruzzolone (Maganuco e Bottari) ed anche, recentemente, di Antonello da Messina. Quest’ultima ipotesi, per esempio, sembra già suggerire il Mandel, perché nell’impianto l’opera risulta analoga alla pala distrutta di San Nicolò a Messina. L’ipotesi, inoltre, trova un supporto in due libri, uno del 1755 di Minacciato, l’altro del 1756 di Caio Domenico Gallo, dove si accenna ad una pala di Antonello con dipinte “storie” di San Pietro. C’è, infine, il volumetto Rettifiche ed acquisizioni per Antonello di Giuseppe Consoli che assegna ad Antonello, oltre al nostro dipinto, il Trionfo della morte nel portico Sclafani di Palermo e la Croce di Piazza Armerina. Grazie al suo barone, Giovan Battista Barresi, tra il 1506 ed il 1524, arrivò a Militello La Natività, la più grande ceramica di Andrea Della Robbia. L’opera è divisa in tre parti. Al centro è raffigurata la nascita di Cristo in un contesto gaio ed elegante. Gesù sorride, non in una grotta, ma tra le razionali linee di una capanna. I pastori hanno una grazia arcadica. Gli alberi sullo sfondo danno freschezza e colore all’ambiente. Nella superiore della, un Dio sereno benedice la scena. In quella inferiore è rappresentata la passione, quando tutto consumatum est, in un equilibratissimo bilanciarsi di figure. Siamo davanti a un Rinascimento, se vogliamo, un po’ minore, privo delle aspre tensioni ideali dei pionieri, dominato da un’esteriore eleganza. Un Rinascimento che ricorda più il Ghiberti che il Brunelleschi, più Gentile da Fabriano che Masaccio, più il gusto che l’intelletto. Nel Seicento la feudalità di Militello, con don Francesco Branciforti, vive un momento di particolare forza. Questi ha sposato donna Giovanna d’Austria, figlia naturale di don Giovanni d’Austria, a sua volta figlio naturale di Carlo V, oltre che vincitore sui turchi a Lepanto. Da 1602 al 1622, don Giovanni persegue una politica di prestigio personale, che si riverbera nella vita della città con i benefici della saggia amministrazione e del mecenatismo artistico. Così, attorno a lui fioriscono brillanti ingegni. Dal 1612 al 1614, per esempio, arriva a Militello il manierista toscano Filippo Paladini. La sua è un po’ la banalizzazione della coeva pittura di Caravaggio, dato che si perde troppo dietro le eleganze ed i virtuosismi tecnici, ma trova alcuni seguaci in paese. Nella chiesa del Purgatorio, infatti, c’è una copia di una sua Madonna degli Angeli. Al gusto del Paladini, perciò, o a quello di Caravaggio, potrebbe essersi rifatto l’Ignoto che dipinse San Pietro che comunica Sant’Agata. L’opera colpisce per la carnalità con cui vennero raffigurati i due Santi e l’Angelo presente. Il piede di San Pietro, grosso e contadinesco come quello del San Matteo del Caravaggio, ed il seno di Sant’Agata, naturalisticamente pesante, fanno diventare il miracolo un accadimento vero. La poesia, non più fantastica invenzione, è espressione “della più profonda realtà umana”(Argan). Evidenti influssi paladineschi si colgono pure in due opere, Nascita e Decollazione di San Giovanni, sulle quali sono state trovate le firme del calatino Alessandro Comparetto (ed in una la data del 1631). In esse, purtroppo, il dramma manca del tutto: il truce carnefice ha la grazia vetrinesca dei manichini, non un fremito di vita soira dai personaggi. Espressione della devozione e del decoro ufficiali, l’opera si fa apprezzare come testimonianza, oltre che per certe stesure cromatiche e qualche particolare ben risolto. Durante il restauro, un’opera proveniente da patrimonio Jatrini, raffigurante una settecentesca Sacra Famiglia, ha messo in evidenza una parte anteriore, datata 1739. I lavori di restauro sono stati portati a termine in modo che restasse buona traccia di ambedue le pitture. Così, si vede abbastanza per apprezzare nell’opera più antica, al di là della costruzione tozza delle figure e del disegno stilisticamente attardato, una certa freschezza popolare, quasi da presepio. Troviamo la stessa mentalità popolaresca in una Madonna coi Santi Francesco e Caterina, perché l’impaginazione è quella tipica delle immaginette sacre. Un tardo caravaggesco, sensibile alla lezione di Mattia Preti, fu invece l’autore del Martirio di San Bartolomeo, datato 1694, dove si ammira l’”uso sapiente di bianchi e di rossi mortificati con neri anch’essi sapientemente usati”(Maganuco). A rappresentare il Seicento c’è, ancora, la Madonna della Stella di Giacinto Platania ed una Madonna con Angeli ed un Santo in preghiera. Forse settecenteschi, ma vicini ai criteri compositivi secenteschi, sono i dipinti (di buona mano) San Paolo, San Pietro, San Giovanni e San Giacomo. In essi vigorosi contrasti luce evidenziano i volumi. Le pennellate, sciolte e sapienti, tratteggiano i Santi, apparentemente senza alcun disegno preparatorio. L’autore sembra aver sintetizzato lezioni di pittura tonale con tecniche caravaggesche. Lo stile di queste tele fu, poi, ripreso nei mirabili portelli lignei della settecentesca Cappella Corbino. Con Olivio Sozzi e Vito D’Anna il Settecento, in Santa Maria della Stella, è rappresentato al meglio da tre opere. Di Olivio Sozzi resta un bozzetto e una pala d’altare su La Nascita della Madonna. Vito D’Anna, invece, è il probabile autore di un Viso di Maria dalla stesura cromatica densa e calda. Un Pietro Mineo, o da Mineo, è l’autore del Battesimo di Cristo, del 1753, opera tipica di frescante, più decorativa che narrativa, dove le figure si ammassano in bell’ordine e Dio sembra un settecentesco direttore d’orchestra nell’atto di dirigere un minuetto. Un impianto più o meno simile hanno un San Michele Arcangelo e un San Raffaele Arcangelo con Tobia, forsediunastessa, ignotamano. Di buona mano settecentesca, ancora, sono una Madonna col Bambino, dall’ovale delicato ed adolescenziale, un Cuore di Maria, dove la Vergine ha il viso nobile e tenero, una Madonna col Bambino e San Gaetano, dal disegno di non comune eleganza, un San Luigi Gonzaga ed un Sant’Emiddio, dove, gesuiticamente è data grande evidenza ai ricami dei paramenti, un San Gioacchino e Sant’Anna, pala d’altare attualmente posta nella navata destra della chiesa. Sul finire del Settecento, o agli inizi dell’Ottocento, è poi da collocarsi un Buon Pastore, opera mossa e vivace, dove con abilità nel disegno e nella stesura del colore viene espressa una visione della vita paciosa e sans souci. Antonino Scirè, infine, fu il maggiore artista del Settecento militellese. Fu architetto, poeta, commediografo ed anche pittore. In Santa Maria della Stella lasciò un San Pasquale e un San Gaetano (oraubicatolungolanavatadestra). Di lui, inoltre, restano un San Rocco, proveniente dalla chiesa di San Sebastiano, e un San Giuseppe col Bambino. Al militellese Emanuele Fagone, vivente nei primi anni del secolo XIX°, con tutta probabilità deve attribuirsi la maggior parte dei Ritratti di parroci presenti nella parrocchia. Sua, inoltre, è una Madonna della Stella dipinta su vetro attualmente ubicata in sacrestia. Purtroppo, il tempo e disgraziati eventi hanno del tutto cancellato la firma di Biagio Sa(…)o, forse un napoletano, che nel 1832 dipinse un Sant’Alfonso sorridente e paterno. Il quadro dovette piacere, dato che fu ripreso nelle immaginette sacre create da Emanuele Fagone e da Nicolò Culosi (i due maggiori incisori locali). Dell’ottocentesco Sebastiano Guzzone ci resta un Ritratto del Vescovo Morana, di ottima perizia tecnica. Per lui l’impressionismo fu soprattutto ricamo di pennellate, anche negli anni più maturi. Così, il prelato appare lindo e posato. Niente macerazioni interiori, niente mistiche ascese. Si direbbe un borghese, appena reso più elegante, dal leggero allungamento della figura. Tiene bene in evidenza il suo anello, segno del potere, tutto preso dai suoi compiti politici, tutto chiuso negli angusti orizzonti del buon senso. Di Giuseppe Barone restano gli affreschi sulla volta e sulla parete di una cappella della navata di destra. Inoltre, si conserva un ritratto del Viceparroco don Giuseppe Ragusa eseguito a matita. Qui, Barone, allievo del Loiacono e del Basile, ci dette una riproduzione fedele del reale, sconfinando nello stile documentaristico. Il suo, perciò, appare un lavoro onesto, dove la tecnica è seria e puntigliosa. Una recente acquisizione prestigiosa della chiesa sono, ancora due sculture in bronzo, Angeli, di Emilio Greco, delle quali nella raccolta di quadri si conserva il bozzetto. Come sempre nell’opera del maestro catanese, il movimento è flessuoso ed elegante. E vi si colgono echi che vengono da lontano. Dal maestro monetiere Cimone, per esempio. (S. Gar.)

Mandrà, Mario (Palagonia, 1960-vivente), sportivo. Trascorre l’infanzia a Militello, dove vivono i nonni. Diplomatosi in lingua cinese, a sedici anni pratica il Wushu (Kung Fu) tradizionale. Nel 1982 è cintura nera sul territorio nazionale. Per quattro volte consecutive, dal 1981 al 1984, vince i campionati italiani di combattimento. Nel 1987, dopo un viaggio in Cina, passa all’agonismo. Così, nel 1988 partecipa ai campionati del mondo e nel 1989 è campione italiano nella specialità dello Chang Quan, bastone e sciabola. In questa specialità conquista il secondo posto ai campionati europei tenutisi in Svizzera nel 1991. A novembre dello stesso anno, in Spagna conquista il titolo mondiale nella specialità Chang Quan, il secondo posto nel bastone ed il terzo nella sciabola. Successivamente, oltre agli innumerevoli e prestigiosi trofei internazionali vinti con l’attività agonistica, diventa: Direttore tecnico della squadra milanese Tana de’ Dragoni; direttore tecnico nazionale dell’Associazione Tang Lang Italia; Maestro di 7° grado. Il 25 luglio del 1999 in Cina riceve il Passaggio di 4^ generazione dello stile di Kung Fu della Mantide Religiosa, divenendo così esponente mondiale, nonché responsabile per l’Italia e per l’Europa, di questo metodo di arte marziale.Ha scritto due libri, ambedue per De Vecchi Editori: Corso di Wushu del 1995 e Il Qi Gong. (S. Gar.)

Marino, Santo (Militello, 1924-ivi, 1991), pittore. Lasciò l’ambiente contadino in cui era cresciuto per andare al Liceo artistico di Palermo, dove si diplomò nel 1947. Nel 1959 fu a Vienna per partecipare alla mostra internazionale “Giovane Pittura Italiana”. Nel 1964, su invito del governo tedesco, tenne una personale di sessanta disegni a Berlino e nello stesso anno espose a Dresda.. Nel 1965 tornò in Germania per partecipare all’”Intergrafik 65” di Berlino ed alla mostra internazionale di grafica di Leipzg. Nelle numerose mostre italiane ed estere che tenne potè, inoltre, contare, sui contributi critici di alcuni importanti intellettuali, quali Leonardo Sciascia, Santo Calì, Giuseppe Bonaviri, Gabriele Mucchi, Franco Solmi, Mario Lepore e David Alfaro Siquerios. Bisogna dire, però, che queste sue frequentazioni non lo allontanarono dai personaggi, dalle case e dalla campagna di Militello. Dopo le grandi grafiche in cui il prevalere dei neri dettero uno dei toni più severi ed epici al racconto delle lotte contadine, venne, negli anni settanta, la crisi ideologica, culminata con la mostra L’uomo, la natura, la violenza. Negli ultimi anni, così, i suoi paesaggi, più che proporre banali riproduzioni, acquistarono un’intensità cromatica, da cui traspariva un “furor elegantis iudicii”, capace di scardinare le forme più consuete e di plasmarle in un nuovo ordine ed in una nuova logica. Mori travolto da un treno, mentre attraversava distratto un passaggio a livello incostodito, andando nella sua casa di campagna. Probabilmente, i suoi pensieri s’erano persi dietro le linee del prossimo quadro da dipingere. (S. Gar.)

Marotta, Diego (Militello, sec. XVI), giurista. Svolse gran parte della sua opera dopo la riforma dei tribunali siciliani realizzata da Filippo II. Il Fazio lo celebra come dottissimo nel diritto civile ed  in quello canonico. A Palermo ricoprì varie e prestigiose cariche, fino ad essere promosso al grado di Presidente del Concistoro.  (S.Gar.)

Medulla, Tommaso (Militello, sec. XVIII-ivi, 1774), medico. Lo storico ottocentesco Vincenzo Natale lo colloca, insieme ad Alfio Reforgiato, fra i medici che ebbero reputazione di ottime capacità professionali. Davvero interessante, inoltre, appare la notizia dei molti libri scientifici che (insieme col Reforgiato) acquistò, ricavandone gran profitto nella professione. In ciò c’è un esempio della vivezza intellettuale che da secoli caratterizza la vita di Militello. (S. Gar.)

Milana, Girolamo (Militello, XVI sec.), medico. Fu celebrato dal Caruso e dal Carrera come uomo di scienza e di assennata dottrina. Lo stesso Pietro Carrera, infatti, lo ebbe come maestro di logica. Appartenne ad una famiglia di ottima posizione sociale. Suo padre, Vincenzo Milana, fu uno dei capiscuola della giurisprudenza a Militello, allorché il principe don Francesco Branciforti decise la compilazione del Codice che porta il suo nome. Troviamo, ancora, un dottore Antonino Milana fra i giurati della città nel 1628, quando venne fatta procura, presso il notaio Giovan Battista Sanzà, al conte Majolino Bisanzone per non permettere al principe di Scordia di continuare la fabbrica della città di Scordia. (S. Gar.)

Musumeci Ristagno, Giuseppe (Militello, 1868-ivi, 1954), pedagogista e saggista. Frequentò a Catania il Corso libero di pedagogia, sotto la prestigiosa guida di Paolo Vecchia. Nel 1890 iniziò l’attività di insegnamento e venne nominato direttore didattico per i circoli scolastici di Militello, Scordia, Palagonia e Ramacca. Nel 1910 fondò la Biblioteca Popolare “Angelo Majorana”. Nel 1912 fu nominato vice ispettore didattico, meritandosi in seguito, per i suoi alti meriti, la medaglia d’oro del Ministero della Pubblica Istruzione. Scrisse una Difesa di Pietro Carrera, un Commento al Poemetto Zizza di Pietro Carrera ed alcune pagine sull’attività dei Comici, una comitiva di giovani, appartenenti alla borghesia militellese dell’ottocento, famosi per le loro idee liberali e patriottiche e per il loro comportamento perlomeno vivace. (S. Gar.)

Natale, Alfio (Militello, 1757-ivi, 1826), giurista. Rimasto orfano del padre a tre anni, su di lui ebbe un’influenza notevole l’energico esempio della madre, donna Giuseppa di Castro. Fece i suoi primi studi nel seminario vescovile di Catania, scuola su cui allora si rifletteva il prestigio del vescovo, mons. Salvatore Ventimiglia. Già in quegli anni Natale evidenziò la tendenza ad analizzare nel concreto la natura  dei problemi, prediligendo lo studio della storia e della geografia a quello della letteratura. Si iscrisse, perciò, alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania, laureandosi a diciotto anni. Successivamente, si trasferì a Palermo per approfondire la sua preparazione ed esercitare la professione di avvocato; ma, dopo appena due anni, venne richiamato a Militello dalla madre, per necessità determinata dagli interessi familiari. Gli impegni, però, non gli impedirono di entrare in magistratura ad appena ventuno anni, prima dell’età richiesta, ricoprendo le cariche di capitano giustiziere e di giudice civile, criminale e fiscale. Fece parte, inoltre, di tutte le deputazioni amministrative e fu giudice consultore a Scordia. Il momento più alto dell’attività professionale di Alfio Natale, però, è legato alla controversia che oppose il barone Alfio Corbino al principe di Butera. Nella Sicilia feudale, infatti, v’era una lunga serie di angarie e di privative (di fatto, monopoli baronali), che soffocava ogni libera imprenditoria. Si ricordano, per esempio, la gabella della dogana, accompagnata dalla privativa di aggiustare pesi e misure (catapanato), la stadera sulla vendita dei formaggi e delle carni, che gravava sia sugli allevamenti in città sia su quelli fuori dalle mura, la linusa sull’olio di lino con l’unita privativa di estrarlo privatamente (parallela alla gabella dell’oliveto e relativa privativa sui trappeti), la aratati, ch’era un’imposta sulle giornate d’aratro, la bardaria, una privativa sulle bardature degli animali, la baglia, ch’erano dei diritti sull’attività dei ministri e delle forze di pubblica giustizia, La quartarunata, infine, era l’imposizione di sei tomoli di frumento e due di orzo per ogni bue od altro animale che arava dentro o fuori il territorio. Sulla quartarunata, appunto, era scoppiata la lite tra il barone Corbino ed il principe di Butera. Secondo il codicedelprincipeBranciforti, infatti, i “primari” cittadini ne andavano esenti e perciò il barone si affidò al Natale per opporsi al pignoramento ordinato dal segretario (segreto) del principe. Il Natale colse quest’occasione per attaccare tutte le angarie e le privative e, insieme a altri due avvocati, Antonio Ciraulo di Patti ed Emanuele Rossi di Catania, fece accurate ricerche d’archivio a sostegno delle sue ragioni. Il momento storico gli fu propizio, poiché già il vicerè Caracciolo aveva condotto il suo attacco ai privilegi feudali ed il vicerè del tempo, il principe di Caramanico, intese continuarne l’opera. Quindi, la sentenza, emessa nel 1795, fu favorevole al barone Corbino ed al nostro Natale, anticipando l’abolizione della giurisdizione feudale in Sicilia, che avvenne nel 1812. Peraltro, l’alto ingegno del Natale fu apprezzato dal suo stesso avversario, il principe di Butera, che finì per nominarlo suo segreto baronale a Militello. (S. Gar.)

Natale, Sebastiano (Militello, 1801-ivi, 1822), medico. Fratello dello storico Vincenzo Natale, fu un’intelligenza precoce, poiché già a dodici anni aveva una buona preparazione nelle lingue e nelle letterature latina, greca, italiana e francese. A sedici anni aveva realizzato un sunto del sistema di Linneo e nella chimica aveva vinto il premio dall’Università degli Studi di Catania, per voto del prof. Maravigna. Ancora adolescente quindi, si laureò in medicina e dette tali prove della vastità dei suoi interessi da meritare l’amicizia del famoso conte Brocchi, a cui fece visitare i dintorni di Miitello ed il lago di Naftia. (S. Gar.)

Natale, Vincenzo, il Giovane (Militello, 1781-ivi, 1855), politico e storico. Alla sua attività di patriota e liberale, purtroppo, mancò la soddisfazione di vedere l’Italia unita, ma contribuì non poco alla formazione di una coscienza nazionale, con l’esempio e con gli scritti. Dal 1812 al 1814 fu segretario del Parlamento siciliano e dal 1820 a 1821 ricoprì tale carica in quello di Napoli. Fu, ancora, intendente di Siracusa. Nel 1848 (l’anno delle Rivoluzioni europee) fu deputato a Palermo, dove pure diresse “L’osservatore”, battagliero periodico politico. Fu, inoltre, cospiratore ed esule per motivi politici. Della sua opera di storico (che venne lodata da Ettore Pais e da Carlo Gemmellaro) ci restano: Sulla storia de’ letterati ed altri uomini insigni di Militello nella valle di Noto Discorsi tre, Napoli, tipografia di Francesco Del Vecchio, 1837;  Discorsi sulla storia antica della Sicilia (di quest’opera venne pubblicato il primo volume nel 1843, presso la tipografia di Francesco Del Vecchio di Napoli, mentre il secondo ed il terzo rimasero inediti); i saggi, apparsi nella rivista dell’Accademia Gioenia di Catania, Riflessioni per lo stato di Sicilia e Prosperità dell’isola all’epoca greca. (S. Gar.)

Natale, Vincenzo, il Vecchio (Militello, 1720-ivi, 1760), medico. Fu lodato dal suo omonimo nipote, illustre storico dell’ottocento, per l’ottima preparazione professionale e per il pregevole interesse scientifico attestato dalla sua biblioteca. Dal matrimonio con Giuseppa di Castro nacque un solo figlio maschio,  il giurista AlfioNatale. (S. Gar.)

Nicosia, Emanuele (Catania, 1953-vivente), stilista. Ha lasciato Militello nel 1974, per iscriversi alla facoltà di ingegneria meccanica di Catania e successivamente al Royal College of Art di Londra, dove si è laureato nel 1976 in Automotive Design Engineering. Nei primi anni ottanta è approdato al “Centro Stile” di Cambiano, dopo aver fatto parte del “Centro Ricerche Pininfarina” e del “Centro Stile” della Ford Ghia. Per Pininfarina ha disegnato la Jaguar Spyder Pininfarina e le Ferrari Testarossa e 308 GTO. Inoltre, ha eseguito vari studi per Lancia, Alfa Romeo, Peugeot, Honda, ha collaborato con la Ford Ghia per la progettazione della Ford Taurus ed ha disegnato gli interni della Lamborghini Diablo e della Bugatti EB 110. Nel 1989, su richiesta del giolliere Gianni Bulgari, ha lavorato per la nascita di una nuova marca d’automobile, la GB, realizzando in collaborazione con la Lotus il prototipo di una berlina di lusso. Ha collaborato con la rivista giapponese “Classic Cars”, scrivendo articoli di critica estetica sulle Ferrari. (S. Gar.)

Paladini, Filippo (Casi, 1544-Mazzarino, 1614), pittore. Si formò nell’ambito del tardo manierismo fiorentino, per cui, quando, verso il 1601, si trasferì in Sicilia, ne diffuse le tecniche raffinate ed attente ai gusti degli aristocratici. Tuttavia, subì pure il fascino di certe atmosfere caravaggesche, anche se non ne colse il drammatico senso della morte. Visse ed operò a Militello dal 1612 al 1614 (“con divin pennello”, secondo le parole del poeta Mario Tortelli, che gli fu amico). Di lui ci restano un San Carlo Borromeo  e un San Francesco nel museo “San Nicolò” ed una Madonna degli angeli nella chiesa del Convento dei Cappuccini, Santa Maria degli Angeli. (S. Gar.)

Palermo, Alfio (Militello, sec. XVII-ivi 1724), giurista. Fino all’ottocento inoltrato, l’edificio in cui abitò, nei pressi della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, veniva comunemente indicato come “casa del giudice Palermo”. Egli, infatti, oltre alla professione di avvocato, spesso esercitò quella di giudice. A parere delllo storico Vincenzo Natale, le sue sentenze, seppur scritte in un latino “non troppo purgato”, dimostrano “buon senso” e un modo di ragionare compatibile “coi motivi di diritto alla maniera ch’esige il nuovo codice del 1819”. Fu uno dei fondatori della Chiesa del Sacramento al Circolo di Militello, dove fu sepolto e dove era posto un suo ritratto. (S. Gar.)

Personaggi tipici. Marianu. E’ ancora vivissima l’immagine della sua petulanza nel chiedere l’elemosina. Si può perfino dire che mendicava con esemplare professionalità. Più che ad altro, teneva alla precisione. Guai a saltare il turno nel dargli l’obolo. Immancabilmente, dopo ci si sentiva chiedere gli arretrati. Per lui, più importante della quantità era la regolarità. Su uno sgualcito quadernetto teneva segnati i clienti abituali, che ogni settimana, puntuale come il destino, se lo vedevano davanti a reclamar mercede. Se qualcuno voleva fare il furbo, lo storto, egli gli squadernava i conti sul muso. Lì inesorabilmente risultavano le elemosine saltate e quindi bisognava pagare. Faceva parte integrante della sua figura una vecchia pentolaccia, dentro la quale i maccheroni col sugo convivevano coi tutti i cibi, amici e nemici. Per lui, dentro quel recipiente c’era tutta la ricchezza del mondo. Perciò non c’è perdono per chi una mattina ce lo fece trovare morto, probabilmente per rubargli poche lire. Tatò Pinnanìura. Il suo vero nome era Salvatore Panebianco.Come è scritto nel bel ritratto che ne fece lo scrittore PaoloAbramo, “era venuto al mondo per una sua missione precisa: accompagnare i morti al Cimitero”. Tozzo di figura, coi capelli arruffati e la barba ispida, come scrisse l’Abramo, “appena sentiva il tocco di una campana a morto, puntava sicuro e deciso verso la casa del lutto, e nulla lo avrebbe trattenuto. Si presentava alla porta e aspettava finché non iniziassero i funerali. Dalla famiglia in lutto non accettava nulla. Chiedeva soltanto una crevatta nera, da mettere per l’intero giorno in onore del morto. Dopo non gli serviva più. E se in un giorno i funerali erano tre, dietro l’ultimo feretro Totò Panebianco portava, in una volta, tre cravatte nere al collo”. Pippinu Mantella. Forse egli pretendeva di affermare il suo diritto ad essere ciò che voleva essere, contro ogni logica ed ogni convenzione del mondo. Coerente senza cedimenti, per anni ha interpretato con esemplare serietà il suo ruolo alternativo alla chiesa ufficiale. Bambino, vide il suo ideale nel prete e, se nessun titolo ed una sorte iellata di emarginato gli avevano impedito di esserlo, seppe fare a meno dei titoli e della sorte. Perciò, superando gli scherni di grandi e piccini, unilateralmente si proclamò vicario di Dio. Tout autour de l’église, con la tacita sopportazione del clero ufficiale, Peppino celebrava il suo personale calendario liturgico. Parallelamente alle normali festività, senza pregiudizi campanilistici, sempre più calvo e rotondo, con gli eterni calzoni corti a scoprire il suo cuore bambino, egli portava in spalle per le vie del paese una piccola bara con sopra il simulacro di un Santo. Lo seguiva un codazzo festante di ragazzini, pronti all’applauso sfottente ed allo scherzo da carogna. Ma, Peppino non se ne curava: era troppo occupato a rifare con la bocca la musica della banda. Camminava con passo cadenzato e solenne, lo sguardo fermo dietro le sopracciglia cespugliose e, sul capo, la corona nera dei pochi capelli, irti come spine, che gli erano rimasti. Lo fermavano in tanti: – Peppino, cinquanta lire di bombe e di mascattaria!… – Peppino, cento lire di napoletane e di cassa infernale! Peppino accontentava tutti, con la pazienza di un bue. Faceva “bum!” e “tra-tra-trà!” con la bocca, come nella pagina di un poeta futurista. Ultimamente, si era modernizzato: aveva comprato tric trac e fulminanti e li aveva sistemati, pronti ad essere sparati, sul davanti della piccola bara (che, fra l’altro, aveva piazzato sopra una specie di carrozzella). Un po’ di poesia s’era perduta, come sempre quando avanza il progresso. Piddiruni. Probabilmente, il suo cognome era Pillirone. Fu un brigante a cui sistematicamente veniva attribuito ogni furto, anche quando non poteva averlo commesso perché era in galera (Cu à statu?… Piddiruni!… E Piddiruni era ‘ngalera!). E’, quindi, rimasto nei modi di dire militellesi per indicare un’accusa ingiusta a chi ha già una brutta nomea. Un’altra interpretazione del detto vorrebbe come complice di Piddiruni un carceriere corrotto che di notte lo faceva uscire, segno di un radicato scetticismo popolare nei confronti delle istituzioni. Altri personaggi di cui ha memoria l’aneddottica locale sono: Tatò A Sciutu, che andava in violente escandescenze quando lo provocavano. Però, se nessuno gli diceva niente, se ne usciva con queste parole: “Chiffa’, nuddu mi nguieta?”; Cirinu, che aveva reazioni di divertente, quanto innoqua, violenza se per caso qualcuno si portava il dito sul naso; Culuzza, del quale si favoleggia per indicare in modo osceno la prestanza maschile; Giusippinu, che, se da dietro gli davano uno scappellotto, rispondeva vendicandosi su un incolpevole che gli stava davanti. (S. Gar.)

Pidoto Focile, Sebastiano (Militello, sec. XVII), religioso. Appartenne all’ordine dei domenicani e fu dottore in teologia. Il poeta coevo Pietro Carrera ne fece la lode nel libro 1° dei suoi epigrammi: “Seu te sacra tenet, seu doctae Palladis artes / Splendet in urbe tuum, splendet in orbe decus… (O per le cose sacre, o per le arti della dotta Pallade, il tuo decoro splende nella città e nel mondo)”. (S. Gar.)

Ragusa, Sebastiano (Militello, 1670-ivi, 1744), religioso e letterato. Figlio di Pietro Ragusa e di Agata Bombaro, vestì l’abito sacerdotale e divenne canonico della Chiesa Collegiata San Nicolò-Santa Maria della Stella (nel 1710, infatti, per porre fine alla violenta rivalità che opponeva fra loro le due parrocchie, il Vescovo Asdrubale Termini provò a riunirle in un’unica collegiata, esperienza che fallì dopo appena cinque anni). Il Ragusa ebbe grandi apprezzamenti per il suo talento letterario dopo la pubblicazione di un’Orazione funebre per l’esequie dell’illustre signor D. Giacomo Interlandi, de Barberà, Rizzo e Rao, Principe di Bellaprima, barone del Casale, e feudi di Bucialca ecc. in Catania per il Bisagni 1711. Nell’opera sono evidenti il gusto secentesco per le funambolerie concettose e una vasta conoscenza dei classici latini. (S. Gar.)

Recca, Pasquale (Caltagirone, sec. XVI). Pittore. Visse a Militello dove dorò e dipinse, tra il 1593 e il 1594 la custodia custodia dell’immagine di Sant’Antonio Abate, nell’omonima chiesa. (S. Gar.)

Reforgiato, Alfio (Militello, sec. XVIII-ivi, 1782), medico. Lo storico ottocentesco  Vincenzo Natale lo loda come medico di diffusa buona reputazione. Insieme al collega Tommaso Medulla acquistò molti libri scientifici, con gran profitto nella sua professione ed a conferma della viva e aggiornata cultura militellese di quegli anni. (S. Gar.)

Russo, Bernardo (Militello, sec. XVI-ivi, 1642), religioso ed erudito. Dalle Notizie sull’ordine dei  francescani conventuali, pubblicate a Venezia nel 1644 dallo storico maltese Filippo Cagliola sappiamo che insegnò nelle principali cattedre dell’Ordine, facendosi apprezzare per le vaste conoscenze. (S. Gar.)

Russo, Giovan Battista (Militello, 1560 ca.-1610 ca.), medico e scienziato. La sua dottrina fu celebrata dal Mongitore, dall’Amico, dal Fazio e dal Carrera. Si può, quindi, attribuire alla sua fama ed al suo credito professionale il titolo di barone della Nicchiara dato al figlio Giovanni. Scrisse La Fisicaed altre opere scientifiche, che, purtroppo, non sono arrivate fino a noi. (S. Gar.)

Russo, Melchiorre (Militello, sec. XVII), religioso. Fu monaco nel convento militellese di S. Francesco di Paola. Nel 1627, per i meriti di religioso, il suo padre provinciale lo nominò prefetto della provincia di Palermo. (S. Gar.)

Scirè, Antonino Luciano (Militello, 1695-ivi, 1759), scrittore, pittore ed architetto. Figlio di Antonio Scirè ed Anna Maria Pernice, abbracciò lo stato ecclesiastico. Fu autore di poesie satiriche, dove l’arguzia fece tutt’uno con la passione di parte. Ebbe molta eco, infatti, un suo componimento dove i coevi personaggi militellesi vennero, ad uno ad uno, impietosamente caricaturizzati ed a un altro poemetto, in ottave siciliane, dette il titolo inequivocabile di La perfidia mariana. Scrisse pure una farsa, Calcagnu e calcagneddu, recitandola personalmente con gran divertimento del pubblico e grande ira del Vescovo, che non trovò l’accaduto compatibile con la dignità di un sacerdote e quindi lo sospese dal celebrar messa. Scirè, però, presentatosi al suo superiore, riuscì a divertirlo tanto da farsi dare una dispensa speciale. L’opera pittorica dello Scirè, pur corretta nel disegno e nella stesura dei colori, non superò il limite della mera testimonianza di un suo interesse per questa espressione d’arte. Lasciò un San Pasquale e San Gaetano in Santa Maria della Stella, un’Addolorata in San Nicolò, un Sant’Antonino in San Francesco d’Assisi, un San Rocco in San Sebastiano, una Deposizione dalla Croce nella chiesa del Calvario. Fu, inoltre, autore (anche se, purtroppo, non ne resta traccia) di una Via Crucis affrescata nelle edicole lungo la “strada del Calvario”. Nell’architettura, invece, il suo estro gli permise di raggiungere ottimi ed originali risultati, soprattutto nella Chiesa del Santissimo Sacramento al Circolo, che nella facciata “rientrante” di derivazione borrominiana propone un gioco di linee dinamicissime ed ascensionali. Disegnò pure l’ultimo ordine del prospetto del chiesadi San Benedetto ed il prospetto della chiesa di Sant’Anna a Palermo. La chiesa del Calvario, invece, come ha dimostrato il prof. Giuseppe Pagnano, è di Francesco Battaglia e non dello Scirè, come comunemente si era creduto.  (S. Gar.)

Scirè, Michele (Militello, sec. XVII), religioso. L’unica memoria che ci resta di lui è un epigramma del contemporaneo Pietro Carrera, dove leggiamo che fu monaco nel convento militellese di S. Francesco di Paola e (con un gioco di parole sul suo cognome, tipico del secolo) uomo di vasto sapere, nonostante fosse appena ventenne: “Sunt quatuor vix lustra tibi… Scire cognomina gentis / Sunt tibi, scire quidem, sic quoque Scire vocent (Pur s’hai appena quattro lustri… Sapere e il tuo cognome, tu che in verità hai il sapere, così tu sia chiamato Scire, cioè Sapere)”. (S. Gar.)

Sparito, Giosuè (Militello, 1899-Palermo, 1961), poeta. Con tale pseudonimo (che, probabilmente, in parte derivò dalla sua ammirazione per il Carducci) Enrico Fagone pubblicò le sue poesie ed i suoi saggi critici. I suoi volumi poetici più importanti sono: Luci ed ombre, Verso le stelle, Aurora, Canti stellati, Sulle rive del silenzio. In essi lo Sparito, col tipico eccletismo degli autodidatti, abbonda nei prestiti da Petrarca, Alfieri, Foscolo e Pascoli. L’effeto finale, così, oscilla tra alcune anacronistiche stranezze ed altrettanto anacronistici concetti scontati. Va tuttavia apprezzata la musicalità del suo fraseggiare ed il rigore del suo messaggio morale. I suoi interventi saggistici furono raccolti in: Foscolo e Leopardi, Processo al secolo, Maglio sonoro, Opere e cervelli. Diresse, inoltre, “La rupe”, un periodico di critica letteraria ed artistica. Un figlio suo, Enrico Fagone, èattualmente un critico d’arte di fama nazionale. (S.Gar.)

Storia. Frale più importanti testimonianze della comune memoria cittadina potremo certamente collocare la Chiesa di Santa Maria La Vetere, che già in epoca tardo romana e bizantina era il riferimento di un definito nucleo urbano. Gli scavi, infatti, hanno fatto ipotizzare all’archeologa Pinella Marchese Viola che essa “si imposta su un complesso rupestre tardo-antico edaltomedievale, con pozzi ed ipogei scavati nella roccia calcarea”. Di epoca medievale, ancora, è il Castello, del quale oggi restano soprattutto una torre e la porta. Il primo feudatario di cui ci resta il nome fu Alaimo da Lentini (1071). Seguì Lanfranco da San Basilio, che possedette pure i castelli di Oxena e di Jetra. Nel 1154 governò Manfredi di Policastro, nel 1282 Teodoro da Lentini, regio ministro. Poi, abbiamo i nomi di Bonifacio e Giovanni di Cammarana. Finalmente, la prima signoria stabile cominciò nel 1318, coi Barresi. Abbo, il capostipite, fu ribelle alla corona e tentò una lunga lite con Antonello, che gli succedette. Seguì Antonio Piero, forse protagonista di un medievale e sanguinario dramma della gelosia, causato dalle voci calunniose che lo portarono ad ammazzare la moglie, Aldonza Santapau, ed il suo presunto amante, Pietro Caruso (alcuni studiosi, però, attribuiscono l’efferata azione a Giovan Battista, suo figlio e successore). La prima notevole opera d’arte medievale è il quattrocentesco Portale di Santa Maria La Vetere, col complesso scultoreo della Vergine col Bambino e due Angeli inginocchiati, dove è facile apprezzare la perizia tecnica di maestri scappellini locali ben consapevoli delle novità portate dai Gaggini nell’impaginazione e nella ricerca di forme delicate ed eleganti. Di scuola gagginesca sembrano pure un frammento marmoreo raffigurante la Vergine Annunziata ed una Madonna col Bambino attualmente posta nella sacrestia di Santa Maria della Stella. Nella stessa chiesa, inoltre, vanno ammirati: Il Sarcofago di Blasco II Barresi, nella parte inferiore frutto di una non dozzinale cultura gotico-catalana e, nella parte superiore, esempio delle nuove esigenze di monumentalità avvertite dall’orgogliosa nobiltà siciliana; il Ritratto di Pietro Speciale di Francesco Laurana, dove nel profilo fermo e nell’espressione determinata si ha una perfetta raffigurazione del condottiero rinascimentale; il retablo San Pietro e Storie, per il quale è ancora aperto il gioco delle attribuzioni, ma dove si avverte pure il disegno minuto e preciso, oltre all’impostazione prospettica che diedero prestigio alla pittura di AntonellodaMessina; La Natività, ceramica policroma di Andrea Della Robbia, ricca di sentimentalismo elegante e mondanamente sereno. Tutto ciò basta a dare un’idea del livello qualitativo della vita culturale del Rinascimento militellese, che ancora attende una completa valorizzazione. L’ultimo dei Barresi fu il marchese Vincenzo, morto a soli diciassette anni, la prima notte di nozze. Il possesso di Militello, quindi, passò alla famiglia Branciforti, segnatamente a Fabrizio, conte di Mazzarino e sposo di Caterina Barresi, sorella di Vincenzo. Il momento più glorioso della storia di Militello si ha con Francesco Branciforti, figlio di Fabrizio e sposo di Giovanna d’Austria, figlia di don Giovanni d’Austria, il vincitore di Lepanto. Dal 1602 al 1622, don Francesco perseguì una politica di prestigio, che si riverberò nella vita della città con opere di saggezza amministrativa e di mecenatismo artistico. Fece impiantare la prima tipografia della Sicilia Orientale, tenuta dal trentino Rossi, la cui casa esiste ancora nell’antico e suggestivo quartiere di San Pietro. Attorno a lui, inoltre, fiorirono brillanti ingegni, come i letterati Pietro Carrera e Mario Tortelli ed il pittore Filippo Paladini. Purtroppo, don Francesco Branciforti morì senza eredi maschi (avvelenato, probabilmente dal padre), per cui Militello passò prima alla figlia, Margherita, e poi, dopo complicate “lotte di successione”, al ramo mazzarinese dei Branciforti. Da questi, per testamento scritto l’otto aprile 1675, Militello fu ceduto a Giovanni Carafa. Ritornò, quindi, ai Branciforti, con Nicolao Placido. Ritorno provvisorio, poiché venne contrastato con successo da Girolamo del Carretto, finché non lo riprese Ercole Michele, duca Branciforti, che se ne investì il 29 settembre 1727. Fortunatamente, anche il Settecento fu un periodo ricco di produzione artistica. Ottimi manufatti architettonici furono, per esempio, il Palazzo Baldanza ed il palazzo Niceforo, oltre alle Chiese del Circolo dello Scirè e del Calvario del Battaglia. Inoltre, nella Chiesa di San Benedetto si conserva L’ultima comunione di San Benedetto di Sebastiano Conca (Gaeta, 1679-Napoli, 1764), opera che si fa apprezzare per il disegno robusto e per la severa impaginazione. Infatti, la committenza del tempo era, se vogliamo, un po’ provinciale, tutta dedita ai fasti architettonici, anche quando richiedeva opere pittoriche. Ecco perché questa è l’epoca dei frescanti. Di essi, i più aggiornati guardavano le opere dei romani e dei napoletani. In Sicilia, i maggiori furono Olivio Sozzi e Vito D’Anna. Del primo resta un bozzetto (una delle più pregevoli oggetti d’arte a Militello) ed una pala d’altare conservati in Santa Maria della Stella, raffiguranti La nascita della Madonna. Del secondo, nella stesso tempio si può ammirare un Viso di Maria di struggente e palpitante bellezza. La più vivace presenza intellettuale del Settecento militellese fu il sacerdote, architetto, pittore e poeta don Antonino Scirè. Sue sono alcune poesie satiriche, di una delle quali sono diventati famosi i versi in cui Militello appare una: “…terra senza conforto / di acqua, vento e campane a morto”. La storia politica di Militello nell’Ottocento e nel Novecento ebbe alcuni aspetti negativi, che ancor oggi sono forse le prime cause del suo sottosviluppo. Essa fu, infatti, caratterizzata dalle lotte fra clan, intrecciandosi col secolare campanilismo dei mariani e dei nicolesi. Nell’Ottocento i nicolesi fecero gruppo attorno ai borbonici Majorana Cocuzzella, mentre i mariani furono una brigata fedele ai liberali Majorana Calatabiano. In questo contesto, l’otto settembre 1869 avvenne l’omicidio del patriota mariano Francesco Laganà Campisi, per il quale fu posto sotto accusa il barone SalvatoreMajoranaCocuzzella. Nel Novecento un vigoroso impulso alle opere pubbliche si ebbe durante il ventennio fascista, quando furono completate la villa comunale, l’edificio delle scuole elementari e quello delle carceri. (S. Gar.)

Tineo, Giuseppe (Militello, 1756-Palermo 1812), naturalista. Era figlio di un dottore in legge, Vincenzo, e di Francesca Ragusa. I suoi zii erano preti piuttosto reputati per la loro dottrina. L’ambiente familiare, quindi, fin da giovanissimo lo invogliò allo studio. Ben presto si trasferì a Palermo, dove, grazie all’opera illuminata del vicerè marchese Caraccioli e del suo successore, principe di Caramanico, cominciarono a nascere molte istituzioni di pubblica utilità (il primo Camposanto, l’osservatorio, le scuole normali, l’orto botanico). Il nostro Tineo, per la fertilità del suo ingegno, meritò di essere uno dei protagonisti, poiché, oltre ad essere cattedratico all’università, fu il primo direttore dell’Orto Botanico. Incombenza, quest’ultima davvero difficile, se si pensa che, prima che gli venisse affidata, venne mandato a spese pubbliche nelle scuole di Pavia, dove entrò in contatto coi maggiori professori del tempo. (S. Gar.)

Tortelli, Mario (Militello, fine sec. XVI-ivi, 1621), giurista e poeta. Sappiamo che il padre, Bartolomeo, veniva dal Piemonte (probabilmente da Asti). Giovanissimo era già secondo assessore del principe don Francesco Branciforti, quando il vecchissimo e prestigiosissimo Vincenzo Milana ricopriva la carica di primo giudice consultore. Il Fazio, il Mongitore e l’abate Amico ne lodarono il talento letterario e Pietro Carrera, che gli fu stretto amico, lo celebrò nei suoi epigrammi. Nel 1617 pubblicò Il discorso sopra Carrera, premesso (insieme ad un altro scritto di don Giovan Battista Cherubini) al trattato su Il giuoco degli scacchi di Pietro Carrera, dove fece accenno a una Storia della famiglia Branciforti alla quale lavorava e che è andata persa. In quella sede Tortelli volle pure evidenziare il prestigio sociale e culturale della Militello brancifortea, così splendida di strade, piazze, fabbriche, giardini, fontane e, soprattutto, di una biblioteca, che per “copiosità” e “fioritezza” non aveva pari in Sicilia e “gareggiava colle più belle e ricche d’Italia”. Nel 1620 pubblicò per la tipografia Giovanni Rossi di Militello Dei madrigali di Mario Tortelli. Centuria prima dedicata all’illustrissimo et eccellentissimo signor D. Francesco di Castro, Conte di Castro, Duca di Toresano, Vicerè, e Capitan Generale per sua Maestà in questo regno di Cicilia  ecc. Nel discorso di prefazione (che fu affidato al Carrera) troviamo notizia di “alcuni disagi di fortuna” patiti dal poeta (forse, la malattia che lo porterà alla morte) e un riferimento ad altri lavori letterari, dei quali, purtroppo, ci restano soltanto i titoli: Lettere familiari, Orationi e una non meglio specificata Opera in legge. I Madrigali, comunque, si fanno apprezzare per la levità con la quale i “maravigliosi” giochi verbali barocchi diventano sorridente e cortigiana eleganza (bastino, per farne un esempio, queste disinvolte parole ad una dama: “vidi le mamme, anzi le nevi ignude / ov’Amor la sua face accende e chiude…”). Appena un anno dopo la pubblicazione dei MadrigaliTortelli morì e fu seppellito nella chiesa di S. Nicolò. (S. Gar:)

Tortorici, Mariano (Militello, sec. XVII-Catania 1732), religioso. Fu un frate cappuccino noto per la profondità degli studi e per la grande eloquenza. Nel 1735 venne eletto Padre Provinciale dell’Ordine. Fondò, inoltre, il Convento del Biscari. (S. Gar.)

Tutino, Egidio (Militello, 1613-Piazza Armerina, 1675), religioso. Il nonno, Geronimo, era venuto a Militello da Cosenza come cavallerizzo del principe don Francesco Branciforti ed il padre, Giovanni, era stato cavallerizzo del generalissimo don Carlo d’Austria. Egli indossò l’abito dei domenicani, mutando in Egidio il nome di Luca. Fu maestro di teologia e reggente degli studi nei conventi di Palermo e di Messina. Scrisse le seguenti opere: Istruzioni sopra le virtù cristiane fatte ai principi; L’Anno santo, o vite di tutti i santi d’ogni giorno, tomi 12; Il Virgilio ridotto in versi italiani; Quaresimale e prediche. (S. Gar.)

Vitale, Filippo (Militello, sec. XVI/XVII), religioso. Nacque da Antonio Vitale e da Giovanna Del Bene. Vestito l’abito dei monaci agostiniani, fece l’eremita nella contrada di San Basilio, tra Militello e Scordia, che da allora prese il nome di “feudo dei monaci”. Nel 1585 ebbe l’incarico di professore nella Congregazione detta di Centorbi a Regalbuto. Dal 1597 al 1619 fu per quattro volte Vicario Generale. La sua grande dottrina venne lodata nel Sommario delle cronolog. notizie della vita del venerabile Fr. Andrea del Guasto fondatore degli Eremitani Riformati Agostiniani di padre Fulgenzio da Caccamo. (S. Gar.)

Zuccalà, Mariano (Militello, 1880?-ivi, 1935), scultore. Iniziò i suoi studi artistici nel 1892 a Catania, nella cerchia del prof. Carlo Garuglieri. Si distinse per un bassorilievo in pastellina esposto al Reale Ospizio di Beneficenza di Torino. Eseguì decorazioni nei cantieri dell’industriale Marco Patriarca ed in chiese, palazzi, caffè, cinema (si ricorda la “Sala Roma” a Catania). Fu autore, inoltre, di complesse costruzioni plastiche, quali Il presepio, Il riposo, La cena, dove una tecnica non perfettissima viene riscattata dai pregi di un racconto ingenuo, non privo di note spiritose (nel Presepio, per esempio, egli inserisce sé stesso, ritraendosi con l’eterna pipa in bocca mentre da una finestra guarda la scena sacra). A Militello di lui restano diversi “capezzali” in gesso e le decorazioni delle scale interne di Palazzo Baldanza. (S. Gar.)

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