Comincia l’Estate di Militello, Estate di feste e mortaretti (come il nostro Credo politico)

Salvatore Paolo Garufi Tanteri
Le feste patronali nella Città Bellicosa
Racconti
Vera Istoria di due (o più) giovani (e meno giovani) amanti  


La mia letteratura ha le radici in Sicilia e fiorisce in tutto il mondo

Gli occhi di Barbara

Collana di letteratura

Direzione:

Salvatore Paolo (Salvo) Garufi

Impaginazione e grafica:

Francesca Tosto

n. 11

Le situazioni private raccontate in questo libro sono un’invenzione letteraria, senza altri riferimenti se non quelli della mia arbitraria fantasia.

Dedica

Ho scritto queste pagine, pensando a una Militello che vorrei rivedere.

Un luogo dove potevi incontrare un uomo come Giovanni Garufi, mio padre, che possedette un negozio di generi alimentari, riuscendo a fallire, perché se aveva voglia di leggere il suo giornale, leggeva e non dava conto ai clienti, o se voleva sognare ricchezze, coltivando la campagna, chiudeva tutto e con la sua bicicletta attrezzata come un camion portava in casa pomodori a forma di cuore, o le fragole che tanto piacevano a mia madre.

Quando si ritrovò pieno di debiti e in un ambiente di famelici usurai, senza pianti, senza strepiti, senza furberie, senza cercare raccomandazioni, aumentò i debiti, comprò un’ape e divenne venditore ambulante.

Da Noto, dove portò il magazzino, girava e vendeva varecchina in tutto il siracusano, annunciando con fatica la merce, perché si vergognava della volgarità.

Ma pagò fino all’ultima lira, non svendendo le sue idee politiche e mantenendo la schiena dritta.

In quello stesso luogo potevi incontrare pure chi in politica militava sul fronte opposto e della politica aveva fatto la sua vita.

Era l’on. Francesco Basso, per tutti Ciccio Basso, che conobbe le galere padronali, ai tempi dell’occupazione contadina delle terre.

Eletto nel parlamento siciliano, ne uscì più povero di quando ci entrò. Fece il sindaco in maniera gentile, pensando all’arte qualche volta e non soltanto agli appalti. Alla fine rimase solo e gli restarono intatti i sogni, l’intelligenza creativa degli antichi, il generoso amore per il confronto delle idee.

Erano due uomini che tra il 1943 e il 1945 si sarebbero sparati addosso, se si fossero incontrati sulle montagne del Nord. Era questo il loro modo di essere fratelli nella dignità. Come i campanilisti di Militello in eterna guerra, erano capaci di rompere un’amicizia, per una questione di principio. Esattamente al contrario di quella accomodante Sicilia degli amici, che piace tanto ai servi e alla mafia.

L’averli conosciuti è un buon motivo per sentirmi orgoglioso della mia terra.

E’ doveroso, infine, chiudere questa dedica con un ringraziamento al sindaco di Militello in Val di Catania, dott. Giuseppe Fucile, per il generoso appoggio alla cultura locale.

Ricami fra le stelle

I

n verità, l’idea di scrivere dei racconti sulle feste patronali e le lotte politiche di Militello ce l’avevo in testa da tempo. Ma, mi decisi in una notte di dicembre, quando insegnavo a Cortemilia, provincia di Cuneo, parlando con un’amica della mia gioventù.

Volevo definire per lei la mia identità strapaesana, secondo gli insegnamenti degli scrittori delle Langhe – Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Nuto Revelli –, per me, a quei tempi, i maestri a cui guardare.

Non c’era – non c’è mai stata – antropologia nella mia testa, quindi. C’era soltanto letteratura, cioè ragione più sentimento, qualcosa di meglio della mera e pretenziosa ricerca scientifica dei cattedratici.

Letteratura a meno venti sotto zero, purtroppo. E non è un particolare da poco, perché, se lasci perdere la retorica e le frasi fatte, scopri che il cuore della Sicilia – ed, in particolare, dei paesi della Piana di Catania – lo puoi cogliere soltanto se parli dal freddo, cioè da lontano. Con questo, voglio dire che la Patria non indica la terra in cui si abita, ma è un modo di vivere d’accordo con sé stessi.

La migliore Sicilia è la proiezione mentale di chi ne sta lontano. E’ la Sicilia di Ibn Hamdis, il grande poeta siculo-arabo, la Sicilia di Verga e di Pirandello, la Sicilia che io stesso ho raccontato in Piemonte.

Quella notte la neve era una spessa crosta, opaca come un muro. Di fronte a casa mia, il fiume Bormida, nero di acido fenico, pareva il corvo di Edgar Allan Poe, mentre gracchia nevermore alla natura.

Nella cucina, sotto la luce del neon, c’eravamo io e lei… la mia bionda, alta, irresistibilmente nordica, amica.

“Fra poco sarà Natale” le dissi. “Domenica ti porto a Ginevra. Mi piacciono i suoi alberi addobbati lungo le strade.”

“Parlami del tuo paese, invece.”

“Militello?… E’ famoso perché c’è nato Pippo Baudo!”

“Soltanto?”

“Anche altri… I Majorana per esempio… il cantastorie Franco Tringale…”

“No, non è di questi che voglio sapere, ma della gente comune…”

Nel dirlo prese un’aria sognante. Da quando stavamo insieme non s’era persa un film dove si sentiva l’accento siciliano. Ella conosceva tutte le smorfie mafiose di Giancarlo Giannini ed io avevo appena ventiquattro anni e una gran voglia di far colpo.

Fuori, il paesaggio mi dava bianco su bianco (tranne la striscia nera del Bormida). Lì il freddo era immobile come la morte, non aveva il fragore dei nostri temporali. Era senz’anima e senza storia, quel freddo. Chissà perché, guardandolo, mi ricordava il nostro caldo, le nostre sieste, quando, madidi di sudore, ce ne stiamo chiusi nella cagnola – cioè, come i cani che si sdraiano a terra, stremati  -.

Ecco, cominciai a dire alla mia amica, l’anima di Militello dorme sotto il peso del torpore estivo, nella silente penombra di una stanza piena di sogni erotici. A Militello siamo tutti dei velleitari. Aspiriamo all’Assoluto ed, aspettandolo, non facciamo nulla.

Però, ci misuriamo in grande, convinti che siamo i più bravi e che gli altri non fanno altro che congiurare contro di noi, per invidia o per interesse. Il che, forse, è vero. Ma, congiurando tutti contro tutti, ognuno non fa altro che combattere – in fin dei conti, da solo – contro tutti. Per questo, in città ci si conosce soltanto attraverso lo scontro e la sconfitta ce la portiamo nel DNA.

Siamo tanti secoli manzoniani, i militellesi, l’un contro l’altro armati. E non lasciamo fuori né Terra né Cielo. Se Gesù scese in Terra a dividere i figli dai padri, noi siamo saliti in Paradiso ed abbiamo diviso il figlio dalla madre. Così, con la benevolenza dei Santi, come gli eroi omerici, il nostro pulviscolo di guerrieri – un po’ massoni da una parte, un po’ spacconi dall’altra – si affronta annualmente nella Grande Guerra che spacca in due il paese.

Più del calcio, infatti, più della politica, ci appassiona la gara dei festeggiamenti tra mariani e nicolesi. E i nicolesi, da noi, mia cara e bionda amica, non sono mica per San Nicolò. Una volta sì, ma ora hanno ingaggiato direttamente il capo, il Divinissimo Salvatore.

Se, perciò, verrai qui, non troverai pii devoti, ma partigiani incazzosi, pronti a rompere un’amicizia – e, se necessario, anche una testa – per questioni di dottrina teologica.

Bisogna anche dire, però, che in questo molle tempo di edonismo piccolo-borghese non ci sono più i lager, i gulag  e le bombe atomiche di una volta. L’armamentario guerriero, oggi, ha lasciato il posto alle droghe, al totalitarismo del privato, alla perdita dei valori cristiani… a tutto ciò, insomma, che possa renderci degli imbecilli.

Perciò, ormai, la guerra è esclusivamente sotterranea, appiccicosa, tradimentosa. Ormai ci si batte prevalentemente col gioco delle intelligence, con le amicizie partitiche, coi voti di scambio, con le spiate, con le calunnie, coi sabotaggi … il tutto per ottenere l’elemosina di un finanziamento, o almeno per godere del gusto perverso di farlo perdere all’avversario.

Resta, ovviamente, la parte più bella: la competizione, tutta concentrata sugli addobbi luminosi, sulle sguaiataggini sonore in piazza e, soprattutto, sui fuochi d’artificio!

La gara più affascinante è quest’ultima. A sentir parlare i capi delle due fazioni, par che ci voglia la cultura di Pico della Mirandola. Nei fuochi d’artificio l’egualitarismo è un non senso, su di essi si stabilisco gerarchie onnipotenti, anche se momentanee. Ecco perché io, che, come Luigi Tenco, non so far niente in un mondo che sa tutto, mi scoraggio di brutto, guardando i competenti fedeli col naso all’insù, mentre contano nel cielo ripetizioni, spaccate e napoletane.

Pare che anche le condizioni climatiche vadano messe in conto nel giudizio. Un rumore più o meno secco, rivelatore della qualità di una bomba, è oggetto di mille sottili discussioni, tali che farebbero impallidire i bizantini più pignoli. Tipi serissimi – di quelli che ridono soltanto quando si siedono a tavola o intascano soldi – saltano di gioia e battono le mani, come tifosi di calcio, o gli scimuniti nei comizi elettorali. Ogni botto è un goal ed un po’… anche una bella coltellata al cuore dei nemici!

Per questo, credo che sia sbagliato parlare di due Militello. Lo spirito di competizione è uno, in tutti i cittadini. Le bandiere sono diverse – bianco-rossa quella dei nicolesi, bianco-azzurra quella dei mariani -, ma il cuore è lo stesso. Vincere oggi, aspettando di rivincere domani.

Bombe è mortaretti sono le armi ideali. Il loro rumore fragoroso e provvisorio è lo specchio del nostro impegno. E’ un grido labile, che per un istante copre ed illumina l’intero universo… e subito si spegne e ci fa rivedere il buio più buio. E’ un ricamo fra le stelle, come ogni opera dell’uomo, di questo schiavo della sua intelligenza e della sua paura della morte.

***

Qualche burla di lampo col fracasso breve

dei fuochi non scalfisce il buio notturno.

I più non moriranno certo eroi:

sciolto un grido strozzato

– questo sembrano i fuochi –

in cima ad un’esistenza senza dramma,

li troncherà la morte sul traguardo

e tornerà il silenzio.

Amarti, forse. Sei grande e sulle spalle

tieni il peso del mondo!

La perfezione è nella vita. Cosa

importa il prima, il dopo?

Quando finii di recitare i versi da me scritti in altra occasione – ma, che spacciai come ispiratimi sul momento dalla bionda amica -, andai alla finestra.

La neve scintillava sotto le luci della strada. Da dietro l’angolo vidi spuntare i fari di un’auto, che presto passò, lasciando due scie di sporco.

Mi volsi verso la mia speranza nell’immediato.

“Charmant!” ella mi disse, pronta a regalarmi un altro straordinario ricordo.

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