Il Settecento a Militello fu il secolo del Barocco del Val di Noto (meno corretto chiamarlo “tardo-barocco”, quando la nuova classe dei “professionisti” e dei “massari” cominciò a sostituire i vecchi feudatari – di S. P. GARUFI TANTERI

SEBASTIANO GUZZONE E LA SOCIETA’ BORGHESE

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

1. La scenografia nel Settecento.

Nel Settecento la storia di Militello prendeva nuovi sviluppi. Subentravano inediti concetti urbanistici, dove il centro era il luogo di spettacolarizzazione degli assetti mentali del potere. La ricostruzione che seguì al terremoto dell’11 gennaio 1693 fu l’occasione di un rivoluzionario impianto viario, giocato su assi lungo i quali le balconate barocche (fig. 11) erano il palcoscenico dove stava la “nobiltà di toga” durante le processioni e le feste patronali. Tutto in quel periodo diventò teatro: dalle messe alle manifestazioni di fede popolare, dalle feste patronali alla nobiltà che si faceva guardare mentre guadava. Non a caso, in questo secolo le Sacre Rappresentazioni raggiunsero livelli di particolare pregio.

Il Venerdì Santo soprattutto dette occasione a straordinarie recite all’aperto. In ciò probabilmente c’era la continuazione dell’attestata tradizione cinquecentesca di rappresentare la Passione di Cristo nella piazza di Santa Maria della Stella. Allora, come ci racconta il Carrera, lo spettacolo durava tre giorni e spesso la recita era in versi siciliani. In tale circostanza i Rettori delle Confraternite maritavano una o più povere “donzelle”. Poi, c’erano balli nella strada e nella piazza davanti alla Chiesa, “ragunandosi tutto il Popolo, poiché vi ballava l’istessa Sposa, li parenti delli Rettori e le più belle donne della Terra, delle quali di riguardevole e singolar bellezza Militello n’è doviziosa.”

Nei copioni ritrovati(1), comunque, risulta notevole la dimensione popolaresca dei personaggi. Maria ed i Santi che la contornano pensano e parlano secondo pregiudizi che oggi sarebbero inammissibili. L’ingiuria nei confronti degli ebrei è violenta e continua. Ciò inquieta particolarmente se si pensa che una zona vicina alla città si chiama Chianu ’e furchi, pianura delle forche (dove, si dice, furono impiccati gli ebrei).

Notiamo, ancora, che i santi non soltanto hanno espressioni poco cristiane nei confronti di chi ha ucciso Gesù, ma sono davvero dei benpensanti. Nei loro giudizi è assente ogni pietà cristiana, specialmente quando si riferiscono ai ladroni compagni di Gesù.

L’opera più antica che ho potuto consultare è datata 1749 e ne esistono diverse varianti (forse alcune precedenti). La sua lunghezza (che è quella media dei copioni) è di quindici facciate formato quaderno. Le grafie dei manoscritti appaiono diverse. Le varianti sono spesso tautologiche, per contenuto e natura dei sentimenti; oppure, frammentano fra più interlocutori alcuni monologhi; o, ancora, inseriscono didascalie meglio specificate. Qualche volta, le varianti presentano una maggiore audacia nei barocchismi. Pochi i ripensamenti evidenziati dalle cancellature (molti, forse, legati a dubbi interpretativi del manoscritto più vecchio).

Benedetto Laganà fu il più importante autore di tale genere di testi. Egli vestì l’abito dei frati cappuccini e si distinse come predicatore di vasta dottrina. Nel 1752 , presso Bisagni di Catania, pubblicò Il profeta abborrito, ossia Cristo al Calvario, ed alla sepoltura, azione sacrotragica, e nel 1755, presso Pulejo di Catania, Cristo condannato, anch’essa azione sacrotragica.

Scrisse, inoltre, altri sette drammi di argomento sacro: Cristo nel presepio, Il ritorno di Egitto, La gara dell’amore fra Gesù Sagramentato e Militello, Il vero omaggio a Gesù Sagramentato, Cristo nei tribunali, Il Compedio della passione, Cristo resuscitato. Il pregio di queste opere è la versificazione accattivante e musicale, che ben si adatta alla recitazione all’aperto. Il Laganà fu anche autore di un’Orazione panegirica in lode del glorioso martire S. Vito, protettore della città di Regalbuto, pubblicata presso la stamperia Valenza di Palermo nel 1759, ed altri suoi manoscritti erano conservati nella biblioteca del convento dei cappuccini di Militello.

Tutto il teatro del Laganà fu poi ristampato da un suo fratello presso la stamperia Valenza di Palermo nel 1763, col titolo generale di Il teatro del Cattolico, Opere sacre abbozzate dal padre Franc. Benedetto da Militello Predicatore Cappuccino della Provincia di Siracusa.

Il decoro artistico, invece, riguardò soprattutto l’architettura, forse per il fervore costruttivo che seguì al disastroso terremoto del 1693. Ottimi manufatti furono, per esempio, il palazzo Tineo (fig. 12), il palazzo Baldanza-Denaro, il palazzo Baldanza ed il palazzo Niceforo (fig. 13), oltre al bel portico della Chiesa del Calvario del Battaglia(2).

In quel secolo, perciò, il quadro difficilmente si pose come discorso finito, come microcosmo chiuso in se stesso. Esso, piuttosto, tendeva a diventare un elemento architettonico, parte di un più generale concerto visivo. Ne fu pregevole esempio il Coro ligneo nella chiesa di San Benedetto, fastosamente impreziosito (secondo la filosofia dell’ordine benedettino) con scene sacre a bassorilievo.

Era, inoltre, l’epoca dei frescanti. Di essi, i più aggiornati guardarono con attenzione l’opera dei decoratori romani e napoletani. La bravura consisteva nel rendere ricco il lampeggiare di colori e l’intrico delle decorazioni (fig. 14).

Nella Chiesa di San Benedetto, ancora, arrivò un’importante opera pittorica, L’ultima comunione di San Benedetto (fig. 16) di Sebastiano Conca (Gaeta, 1679-Napoli, 1764). Vi si apprezzano il disegno robusto e la severa, anche se troppo canonica, impaginazione; come d’altronde c’era da aspettarsi, tenuto conto della committenza del tempo, se vogliamo molto controriformista e provinciale.

In Sicilia i maggiori frescanti furono Olivio Sozzi e Vito D’Anna. Del primo vale la pena di ammirare La nascita della Madonna (fig. 15, la pala d’altare è posta in Santa Maria della Stella; il bozzetto esposto nell’annessa Stanza del tesoro). L’opera è piena di movimento ed unitaria al contempo. Il punto di massima attenzione è leggermente spostato a sinistra. Da lì si diparte una spirale di figure, che dal fondo buio, dalle viscere della terra, arriva al forte rilievo del personaggio in primo piano, per ritornare poi verso l’alto, su, fino a toccare il cielo. I partecipanti all’evento, nell’espressione dei visi e negli atteggiamenti, sembrano i protagonisti di uno di quei tipici e raffinati ricevimenti coi quali il Settecento andava incontro alla catarsi insanguinata della Rivoluzione Francese.

L’opera di Vito D’Anna, visibile nei depositi di Santa Maria della Stella, è un Viso di Maria di misteriosa e palpitante bellezza. Il Manganuco l’attribuì a “un pittore come il Tuccari, ma che abbia studiato a lungo il Reni” e, così, colse le ascendenze culturali del dipinto. In esso la stesura dei colori è concentrata. Il breve spazio dell’ovale del viso è ricco di inavvertibili passaggi di tonalità, di infinite temperature cromatiche. Nello sguardo della Vergine c’è una segreta inquietudine ed un’umiltà che contraddice i luccichii dell’epoca. Così, profondità d’introspezione e composta dolcezza fanno di questo lavoro una delle più alte espressioni artistiche che si trovano a Militello.

Bisogna dire, ancora, che nel 1986, durante il restauro di un’opera (proveniente dal patrimonio Jatrini) raffigurante una settecentesca Sacra Famiglia, è venuta alla luce una parte anteriore, datata 1739. Per mia scelta, i lavori sono stati portati a termine in modo che restasse buona traccia di ambedue le pitture. Così, si vede abbastanza per apprezzare nell’opera più antica, al di là della costruzione tozza delle figure e del disegno stilisticamente attardato, una certa freschezza popolare, quasi da presepio. La stessa mentalità popolaresca la troviamo in una Madonna coi Santi Francesco e Caterina, perché l’impaginazione è quella tipica delle immaginette sacre. Settecenteschi, ma vicini ai criteri compositivi secenteschi, sono, poi, quattro dipinti di buona mano: San Paolo, San Pietro, San Giovanni e San Giacomo. In essi vigorosi contrasti luce evidenziano i volumi. Le pennellate, sciolte e sapienti, tratteggiano i Santi, apparentemente senza alcun disegno preparatorio. L’autore sembra aver sintetizzato lezioni di pittura tonale con tecniche caravaggesche. Lo stile di queste tele fu ripreso nei mirabili portelli lignei della settecentesca Cappella Corbino (tutte queste opere sono oggi ammirabili nei depositi del tempio di Santa Maria della Stella).

Molto vivace fu, ancora, l’opera e l’arguzia del sacerdote, architetto, pittore e poeta don Antonino Luciano Scirè (1695-1759), figlio di un apprezzato capomastro, Antonio Scirè. Sue sono alcune poesie satiriche, dove l’arguzia fece tutt’uno con la passione di parte. Ebbe molta eco, infatti, un suo componimento, dove i coevi personaggi militellesi vennero, ad uno ad uno, impietosamente caricaturizzati ed un altro poemetto, in ottave siciliane, dall’inequivocabile titolo di La perfidia mariana.

Scrisse pure una farsa, Calcagnu e calcagneddu, recitandola personalmente con gran divertimento del pubblico e grande ira del Vescovo, che non trovò l’accaduto compatibile con la dignità di un sacerdote e quindi lo sospese dal celebrar messa. Egli, però, presentatosi al suo superiore, riuscì a divertirlo tanto, da farsi dare una dispensa speciale.

La produzione pittorica dello Scirè, pur corretta nel disegno e nella stesura dei colori, non superò il limite della mera testimonianza del suo interesse per questa espressione d’arte. Resta attestazione di un San Pasquale e San Gaetano in Santa Maria della Stella, di un’Addolorata in San Nicolò, di un Sant’Antonino in San Francesco d’Assisi, di un San Rocco in San Sebastiano, di una Deposizione dalla Croce nella chiesa del Calvario. Fu, inoltre, autore di una perduta Via Crucis affrescata nelle edicole lungo la strada del Calvario.

Nell’architettura, invece, il suo estro gli permise di raggiungere ottimi ed originali risultati, soprattutto nella Chiesa del Santissimo Sacramento al Circolo (fig. 17), che, nella facciata “rientrante” di ispirazione borrominiana, propone un gioco di linee dinamicissime ed ascensionali. Disegnò pure l’ultimo ordine del prospetto della chiesa di San Benedetto ed il prospetto della chiesa di Sant’Anna a Palermo.

Altro nome di artista militellese di quegli anni fu Salvatore Falcone (1756-1806). Autodidatta, fu maestro nel disegno e nell’incisione, prediligendo le piccolissime dimensioni. Eseguì copie da artisti famosi, ma seppe pure ritrarre con prodigiosa somiglianza personaggi e paesaggi di Militello. Vincenzo Natale ci dice di due boccioli di canna incisi da lui, dove le figure e i paesaggi erano ben distinti, nonostante lo ristrettissimo spazio. Si sa pure di un suo presepio con figure in rilievo non più grandi della metà di un dito, eppure ricco di particolari nettamente figurati. Per l’abilità nel disegno, molti ingegneri ricorsero a lui per un aiuto, aiuto che non negò mai a nessuno e dette sempre in forma anonima.

Note

  • Archivio delMuseo San Nicolò;
  • Giuseppe Pagnano, Un’opera inedita di Francesco Battaglia: l’Anfiteatro del Venerdì Santo in Militello inVal di Catania, in “Lembasi”, rivista del Museo San Nicolò, anno I, n. 1, Militello, 1995, pp. 11-45.
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