Manierismo e feste barocche nella Sicilia feudale del Seicento e del Settecento – di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Santo MARINO, Il Giudice, Museo Civico di Militello in Val di Catania (Sicilia)

I Baldanza, tra Manierismo e feste barocche

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Dal 1612 al 1614 visse a Militello, operando “con divin pennello”(Tortelli), il toscano Filippo Paladini (Casi, 1544-Mazzarino, 1614). Egli si era formato nell’ambito del tardo manierismo fiorentino, per cui, quando, verso il 1601, si trasferì in Sicilia, ne diffuse le tecniche raffinate ed attente ai gusti degli aristocratici. Tuttavia, subì pure il fascino di certe atmosfere caravaggesche, anche se non ne colse il drammatico senso della morte. La sua, insomma, fu un po’ la banalizzazione della pittura del Maestro lombardo, dato che si perse dietro le eleganze e le esibizioni di virtuosismi tecnici.

Forse per questo trovò molti seguaci. Nella chiesa del Purgatorio, infatti, c’è una copia di una sua Madonna degli Angeli ed al suo gusto, o a quello di Caravaggio, potrebbe essersi rifatto l’Ignoto che dipinse San Pietro che comunica Sant’Agata, opera che si trova nei depositi del Tesorodi Santa Maria della Stella. In quest’ultima colpisce la carnalità con cui vennero raffigurati i due Santi e l’Angelo presente. Il piede di San Pietro, grosso e contadinesco come quello del San Matteo del Caravaggio, ed il seno di Sant’Agata, naturalisticamente pesante, fanno diventare il miracolo un accadimento vero, che si esplica in uno spazio preciso e coinvolge precise persone (descritte addirittura con scrupolo anatomico). Il messaggio divino si mischia alla materia. La poesia, non più fantastica invenzione, è espressione “della più profonda realtà umana”(Argan).

Evidenti influssi paladineschi si colgono pure in due opere, Nascita e Decollazione di San Giovanni (anche queste presenti nei depositi del tempio mariano), sulle quali sono state trovate le firme del calatino Alessandro Comparetto (ed in una la data del 1631). In esse, purtroppo, il dramma manca del tutto: il truce carnefice ha la grazia vetrinesca dei manichini, non un fremito di vita spira dai personaggi. Espressione della devozione e del decoro ufficiali, i dipinti si fanno apprezzare soprattutto come testimonianza, oltre che per certe stesure cromatiche e qualche particolare ben risolto.

Di Filippo Paladini, invece, ci restano una Madonna degli Angeli (ubicata nell’omonima chiesa), un San Carlo Borromeo (fig. 7) e un San Francesco (fig. 8, col San Carlo nel Museo “San Nicolò”).

In queste produzioni, così, possiamo leggere tutte le inquietudini della controriforma. Le luci sono radenti e taglienti. Eppure, come s’è già detto, perduto dietro gli sfoggi tecnici, raramente egli crea il dramma. Si vede che siamo nel secolo dove, come scrisse il De Sanctis, la “vita interna è naturalismo in viva opposizione con l’ascetismo”. A ben guardare, l’arte sull’arte, tipica dei manieristi, è disperazione. Ammette l’impossibilità di parlare della vita. Di più, essa ha il sospetto che, nell’indifferente scorrere del tempo, la vita non esista.

Un manierismo di più disimpegnata eleganza si esprime nel movimento sinuoso ed ascensionale delle linee della Madonna del Rosario, scultura in legno policromo attualmente posta nell’Abbazia di San Benedetto.

 Nei depositi del Tesoro di Santa Maria della Stella, invece, c’è un’interessante Madonna della Stella di Giacinto Platania, pittore secentesco nativo di Acireale. E’ un’opera che si stacca dalla coeva cultura figurativa; ma, nel senso che essa guarda indietro. La Vergine, insieme al Bambino, è raffigurata frontalmente. La corona, lo scettro, l’espressione ieratica e lontana danno il senso più dell’istituzione che dell’intimità religiosa. Dal Platania ci viene l’immagine della potenza. Per lui sono passate invano le angosce caravaggesche. Il potere non pone e non si pone dubbi. Sic non transit gloria mundi.

Nella chiesa mariana troviamo, ancora, un’altra visione popolare della divinità, fatta di regalità e dolcezza, con la statua della Madonna della Stella (fig. 9), che la popolazione devota porta in processione, l’8 settembre di ogni anno. C’è pure, di non minore suggestione, un Cristo alla colonna (fig. 10), scultura lignea di uno stile vicino a quello di fra’ Umìle da Petralia.

Bisogna dire, infine, che l’arte dell’epoca ebbe degni rappresentanti militellesi nei due Baldanza.

Il primo, Giovan Battista Baldanza il Vecchio (sec XVI-XVII), fu forse parente dell’abate De Angelis. Nel 1601 scolpì una statua di San Leonardo per l’omonima chiesa; nel 1621 scolpì la statua di San Nicolò di Bari, titolare della Chiesa Madre. Nel 1631, sempre per la chiesa di San Nicolò, scolpì dodici statuette rappresentanti gli Apostoli. Fu, inoltre, autore della Bara di Santa Maria della Stella (1624) e delle Porte del tabernacolo di Santa Maria della Stella. Gli esemplari sopravvissuti della sua produzione si fanno ammirare per certa elegante morbidezza di forme, pur in una distribuzione di volumi che trasmette l’idea di una ferma dignità.

I dubbi sull’esistenza di un suo figlio, Giovan Battista Baldanza il Giovane, sono stati sciolti da due documenti che Giusy Larinà ha rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Catania(6). Il primo è un atto di pagamento del 15 novembre 1629, in cui vengono menzionati due maestri Giovan Battista Baldanza, padre e figlio (quest’ultimo chierico). V’è, inoltre, il testamento “in articulo mortis” di Baldanza sr., datato 28 novembre 1631, nel quale Baldanza jr. viene nominato erede universale.

A questo, oltre alla committenza evasa insieme al padre, possiamo attribuire un San Paolo del 1644 e una Bara per San Giovanni Battista del 1651; ed, ancora, diversi lavori pittorici: il Sant’Isidoro (1630) e la Madonna dell’Itria (1631) per la chiesa di San Francesco di Paola, un San Biagio per la chiesa di Sant’Antonio di Padova, una Sant’Agata per la sacrestia del monastero omonimo e un enorme San Benedetto per l’Altare Maggiore della chiesa omonima (1646), dove il Santo, in mezzo ai suoi seguaci e ad alcuni personaggi armati di spada, indicava il libro della sua Regola tenuto da un monaco in ginocchio(7).

Una pala d’altare del 1694 va, infine, citata fra quelle che più impreziosiscono Santa Maria della Stella. Fu opera di un tardo caravaggesco sensibile alla lezione di Mattia Preti. V’è rappresentato il Martirio di San Bartolomeo. Vi si ammira l’”uso sapiente di bianchi e di rossi mortificati con neri anch’essi sapientemente usati”(Maganuco).

La ricchezza d’arte era il giusto contesto per le rinomate feste secentesche militellesi. Nel 1611 il Principe Branciforti pensò bene di pubblicare un bando per regolare la “solennità di nostra sig.ra Maria della Stella”. In esso si ordinava ai soldati di uscire con la divisa e le armi dei dì solenni, sotto pena per i contravventori di una multa di sei tarì e di quattro giorni di carcere. Inoltre, si ordinava ai creditori di non importunare i loro debitori per tutti gli otto giorni di festeggiamenti.

Si ha, inoltre, notizia che nel ‘500 e nel ‘600 in onore della Madonna si correva un palio e si svolgeva una fiera a cui accorreva la gente delle città vicine. Ancora, si ha la copia di una ricevuta datata otto settembre 1628, dove si davano un’onza e diciotto tarì a Giuseppe Pitradilo di Palazzolo, per uno spettacolo di equilibrismo sulla corda, dal campanile di Santa Maria al piano sottostante.

Un momento importante era pure la predicazione quaresimale. Secondo la testimonianza del Carrera, il predicatore, già agli inizi del ‘600, svolgeva la sua opera a Santa Maria tutti i sabati (e nella seconda e quarta settimana). Poi, intervenne l’accordo per cui  si predicava in Santa Maria nella prima e nella seconda settimana continuamente, mentre la predica dell’Annunziata veniva fatta nell’omonima Chiesa. Alla stessa maniera, in San Benedetto si svolgeva quella di San Benedetto. La Predicazione della Bolla della S. Crociata, che durava tre giorni, veniva, invece, fatta in San Nicolò. Poi, la prima Processione delle Vocazioni, che si faceva di lunedì, andava a San Pietro; la seconda, di martedì, a San Giovanni; la terza, di mercoledì, a SantAntonio Abbate.

Nella Domenica delle Palme la processione andava a S. Antonio Abbate, ma non entrava in chiesa, per cui si apprestava l’altare nel piano davanti alla porta sud e lì si recitavano le antifone in versetti e le Orazioni del Santo. Dopo, partiva la processione che, passando dietro San Pietro, arrivava nella piazza davanti alla Chiesa Madre di San Nicolò. Qui il Clero ed i parrocchiani di San Nicolò entravano nel tempio, mentre il Clero ed i parrocchiani di Santa Maria se ne scendevano verso la loro chiesa. Quindi, tutt’e due le comunità, ognuna per i fatti propri, celebrava la Messa ed il Passio.

Quest’ultima notazione ci fa capire che già in quegli anni era in atto la lotta dei campanili (il Carrera la chiamò la “briga grande”), che per secoli ha opposto (e continua ad opporre) le comunità di San Nicola di Bari e di Santa Maria della Stella. Il che viene confermato dalle altre feste di secolare tradizione che si possono ricordare, sempre basandosi sull’autorevole testimonianza del Carrera: il Corpus domini, nella quale di mattina il Beneficiato di San Nicolò aveva la prerogativa di cantar messa in Santa Maria ed al Beneficiato di Santa Maria toccava l’Ufficio serale in San Nicolò; l’Assunzione, alla celebrazione della quale concorreva tutto il Clero, alternativamente un anno in Santa Maria e un anno in San Nicolò; San Marco, con una processione che si recava in Santa Maria ed in quell’occasione i provetti raccoglievano l’elemosina, che poi andava al Clero.

Note

1. Al riguardo cfr. Giuseppe Majorana, Le memorie inedite di Filippo Caruso, Catania, Tipografia Giannotta, 1916, ristampa anastatica a cura del Comune di Militello, 1990;

2. Al riguardo cfr. Vincenzo Natale, Sulla storia de’ letterati ed altri uomini insigni di Militello nella valle di Noto, ristampa anastatica. Catania, Boemi, 1997;

3. Un esemplare dell’opera fa parte della collezione di libri antichi del Museo Civico;

4. Il Museo Civico possiede una collezione molto ampia degli originali di queste opere;

5. Se ne conserva l’originale nel Museo Civico;

6. Giusy Larinà, Note documentarie sull’attività artistica a Militello in Val di Catania nei secoli XVI e XVII, Caltagirone, Società Calatina di storia e cultura, bollettino, 2/93;

7. Purtroppo, una colpevole indifferenza nei confronti del patrimonio artistico ne ha provocato in anni recenti la quasi totale perdita (è visibile soltanto la figura del monaco).Quel che rimane si conserva nel Museo Civico.

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